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Silence

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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La recensione su Silence

di lamettrie
9 stelle

Eccellente sul martirio: più in generale, sulla coerenza, nella fede ma non solo.

Stupenda la restituzione della vita del credente, qui in particolare del cattolico, ma non solo: se è una scelta di vita seria, impone scelte radicali, drastiche. Meravigliose, nella loro drammaticità, le scene della tortura e del martirio. Le quali valgono in generale come denuncia storica, e universale, dei metodi della tortura.  

La speranza è riposta solo in Dio, senza l’ausilio di armi o di altri mezzi di difesa: commuovente, nella sua serietà – ingenuità? – questa fede così davvero coraggiosa, tale da escludere ogni compromesso.

Ma notevole è pure la resa di chi tale coerenza non l’ha avuta: o, per meglio dire, non l’ha avuta sino in fondo. Terribile, intimamente, la resa della coscienza di due sacerdoti: comprensibile per il quieto vivere, infernale per le conseguenze sulla propria interiorità. Da criticare, insomma, ma senza dimenticare l’atrocità inimmaginabile della scelta cui sono stati posti di fronte: hanno dovuto abiurare per non causare la morte di altri innocenti.

A corredo, chiara è la quasi disumanità dell’obbligo del cristiano di perdonare in modo incondizionato: infatti il prete non può esimersi dal confessare, e dunque poi assolvere, colui che lo ha tradito costantemente, nonostante le classiche parole di smentita di quest’ultimo.

Il silenzio del titolo è però assai eloquente, poi: è quello di Dio, che non interviene a fronte dell’orrore che i credenti subiscono solo per amarlo. Questo apparente – solo apparente? – masochismo è del resto compatibile col cristianesimo, che insiste sulla vita eterna come l’unica vera vita, e così svaluta parzialmente questa vita. Ma ha senso davvero? Sono così condannabili, dunque, coloro che qui si vede che hanno rinnegato la fede e, così facendo, hanno salvato la pelle? La sceneggiatura di Cocks e Scorsese, tratta dal romanzo di Endo del ’66 – ricco di riferimenti storici alla vicenda dei gesuiti che hanno cercato di portare la le fede cristiana in Giappone nel ‘600 – eccelle nel lasciar intendere queste implicazioni.

Ottimo è poi l’affresco dei ricatti classici del potere iniquo: subdolo, capace di far forza sulla distruzione psicologica più alienante, sadica, calcolata, inesorabile, lenta per rendere ancora meglio la sua implacabilità.

Interessante è pure la critica al dogmatismo tipico dei missionari, alla loro eccessiva sicurezza. I saggi della cultura giapponese, qui raffigurati, hanno buon gioco ad affermare che questi missionari avrebbero potuto stare tranquilli con la loro fede, senza subire quanto di tremendo subivano, nel caso in cui non avessero avuto l’arroganza di sentirsi superiori gli altri; l’arroganza, cioè, di imporre la propria versione della salvezza su quella degli altri, come l’unica valida per qualunque essere umano.

Lo stesso dogmatismo è l’elemento che rende inconciliabili le religioni: che rende le religioni tradizionali incompatibili con la tolleranza, con i diritti umani. Fra queste religioni – le religioni in generale? – è un dialogo tra sordi: inesistente.

Sotto il profilo squisitamente tecnico, poi il film è una chicca. Dura due ore mezza, non ha certamente un ritmo incalzante, ma non annoia mai.

Incantevoli le scenografie di Dante Ferretti: così icasticamente giapponesi, e nel contempo così oneste riguardo alla bruttezza, ma anche all’autenticità umana, della povertà.  Impeccabile il montaggio della Schoonmaker. Nel dire il contributo di alcuni consueti artefici della officina di Scorsese, vanno elogiate anche le luci, e la fotografia di Rodrigo Prieto.     

Eccellente è pure la recitazione, dove in particolare svetta Garfield, nello stesso anno (il 2016) in cui venne candidato agli Oscar per la “Battaglia di Hacksaw Ridge”. Ma encomiabile è pure tutta la compagnia nipponica.  

Il più grande flop di Scorsese, in termini commerciali: ma, nella sua originalità, un successo artistico e culturale vero.  

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