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Il terzo uomo

Regia di Carol Reed vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il terzo uomo

di Letiv88
9 stelle

Un noir visivamente ipnotico e moralmente spietato. Reed e Greene firmano un capolavoro di forma e sostanza che non ha perso forza né fascino.

C’è un’Europa che puzza di macerie e opportunismo. È la Vienna del dopoguerra, città divisa, corrotta, in cui il confine tra il bene e il male è solo un’ombra sui muri sbrecciati. Il terzo uomo (1949) di Carol Reed è un capolavoro che trascende il noir, un film che parla di inganni e illusioni, di amicizie tradite e coscienze che si sporcano al pari delle strade che le ospitano. È un film di ombre, letteralmente e moralmente, dove la luce serve solo a ricordarci quanto profonda sia la notte.

Reed non costruisce solo un noir, ma un documento morale: un viaggio in una città che diventa simbolo dell’Europa devastata dalla guerra, in cui ogni uomo cerca di sopravvivere vendendo qualcosa — anche la propria anima. La Vienna di Reed non è più quella romantica di Strauss, ma un labirinto di strade fangose, suoni metallici e vite spezzate. È la culla perfetta per un’amicizia marcia, un mistero intriso di cinismo e una discesa nelle fogne della coscienza umana.

Holly Martins (Joseph Cotten, chiamato Alga Martins nella versione italiana), scrittore americano di romanzi d’avventura, arriva a Vienna per incontrare l’amico Harry Lime (Orson Welles), che gli ha promesso un lavoro. Ma scopre che Lime è appena morto in un misterioso incidente d’auto. Martins inizia a indagare, sospettando che dietro quella morte ci sia qualcosa di torbido. Nel corso delle sue ricerche, entra in contatto con Anna (Alida Valli), ex fidanzata di Lime, e con l’ufficiale Calloway (Trevor Howard), che osserva e giudica il caos intorno a loro. Martins, che crede di poter vivere un’avventura come nei suoi libri, si ritrova immerso in una realtà dove i confini tra vittime e carnefici si confondono. L’atmosfera plumbea, i vicoli umidi e i volti ambigui che incontra fanno da sfondo a un racconto sempre più inquietante, in cui la verità diventa un lusso e la lealtà un peso.

La rivelazione finale — l’apparizione di Lime, creduto morto — è uno dei colpi di scena più celebri della storia del cinema, una di quelle svolte che riscrivono il senso di tutto ciò che è venuto prima. Da quel momento, il film si trasforma in un duello morale tra amicizia e sopravvivenza, fino a un epilogo freddo e inesorabile, girato con un distacco quasi crudele.

Carol Reed costruisce il film come un labirinto visivo e morale. Le sue inquadrature oblique, gli scorci deformati, i giochi di luce e ombra fanno della Vienna devastata un personaggio vivo, allucinato, dove tutto sembra instabile. La regia è di una precisione millimetrica: ogni dettaglio, ogni movimento di macchina serve a evocare disorientamento e ambiguità.

Girato in un bianco e nero di potenza straordinaria — che valse a Robert Krasker l’Oscar per la miglior fotografia — il film sfrutta l’inclinazione delle inquadrature (il cosiddetto angolo olandese) per amplificare il senso di vertigine morale che attraversa la storia. Reed, con un’intuizione geniale, fece bagnare le strade prima delle riprese, in modo che la luce riflettesse sulle superfici umide, creando quell’effetto scintillante e teatrale che rende la Vienna del film un sogno distorto.

L’uso delle ombre, l’inclinazione degli edifici, la costante presenza di griglie, finestre e grate parlano di un mondo intrappolato, prigioniero della propria coscienza. È un cinema geometrico, dove la messa in scena diventa psicologia. La sequenza dell’incontro con Harry Lime, illuminato da un lampione nella penombra di un portone, è un manuale di regia: bastano pochi secondi di luce e un sorriso per trasformare un mistero in mito. Reed filma la città come un incubo architettonico, dove i muri raccontano più delle persone.

Ma il vero apice visivo arriva nelle riprese finali ambientate nei tunnel di Vienna, un trionfo di luce, ombra e tensione. Reed trasforma le profondità della città in un labirinto visivo e morale, dove ogni riflesso e ogni goccia d’acqua diventano parte del racconto. È qui che la sua regia raggiunge la massima potenza espressiva: un cinema che non mostra soltanto, ma fa sentire il peso delle coscienze intrappolate nel buio.

 

La sceneggiatura firmata da Graham Greene è semplicemente straordinaria. Ogni dialogo pesa come una sentenza, ogni scena aggiunge un pezzo di verità per poi strapparlo via subito dopo. L’idea del “terzo uomo” nasce dal sospetto e dall’ambiguità, cardini del racconto noir ma qui spinti fino alla vertigine morale. Greene scrisse prima un breve romanzo omonimo come base preparatoria, usandolo per costruire la struttura e il tono morale della storia. È un caso raro in cui l’autore del libro e lo sceneggiatore coincidono, e il risultato è un equilibrio perfetto tra introspezione letteraria e ritmo cinematografico.

Greene porta nel film la sua sensibilità di scrittore cattolico e disilluso: nessuno è innocente, nemmeno chi crede di esserlo. Holly Martins diventa l’uomo qualunque gettato in un mondo dove l’eroismo non serve e la redenzione non esiste. L’autore intreccia il giallo classico con una riflessione esistenziale sull’amicizia e sulla colpa, trasformando l’intrigo in parabola morale.

Nei dialoghi si percepisce un’ironia amara che anticipa il cinismo del dopoguerra: i personaggi parlano per difendersi, non per comunicare. Tutto è doppio, tutto è sfuggente, proprio come i riflessi dell’acqua che scorrono nei canali sotto la città.

Joseph Cotten guida il film con una recitazione sobria ma intensa, che restituisce tutto lo smarrimento di un uomo travolto da un mondo che non capisce. È il punto di vista dello spettatore, l’osservatore disorientato in un mondo dove ogni certezza crolla. Alida Valli, intensa e dolente, dà ad Anna un dolore trattenuto e struggente: ama ciò che dovrebbe odiare e resta fedele anche quando tutto crolla. La sua presenza silenziosa e il suo sguardo fisso nel finale valgono quanto un intero monologo.

Trevor Howard, nel ruolo dell’ufficiale Calloway, è la voce del pragmatismo, l’unico personaggio che conserva un briciolo di lucidità in mezzo al marciume. E poi c’è Orson Welles. Il suo Harry Lime entra in scena con un sorriso e un lampione, e basta quello per riscrivere la storia del cinema. Bastano pochi minuti sullo schermo per scolpire un mito. Durante la produzione, però, Welles si fece desiderare: scappò per mezza Europa per ottenere un compenso più alto, costringendo i produttori a una caccia all’uomo grottesca. Tornò a Vienna solo dopo che un illusionista italiano, pagato profumatamente, gli insegnò alcuni trucchi che volle utilizzare nel film. Da lì in poi, la sua performance divenne leggenda.

Il celebre monologo della ruota panoramica — “In Italia, sotto i Borgia, ci furono guerre, terrore, sangue, ma produssero Michelangelo, Leonardo e il Rinascimento. In Svizzera, cinquecento anni di amore fraterno e democrazia e cosa hanno prodotto? L’orologio a cucù.” — è una lezione di cinismo perfetta. Non era nemmeno scritto da Greene: fu improvvisato da Welles stesso.

La colonna sonora di Anton Karas è diventata parte integrante del mito del film. Reed lo scoprì per caso in una taverna viennese e gli chiese di suonare per lui: rimase folgorato dal suono ipnotico dello zither, uno strumento popolare e malinconico. Ne nacque il celebre Harry Lime Theme, ispirato a Minor Swing di Django Reinhardt, che unisce leggerezza e inquietudine. La musica, apparentemente allegra, si trasforma in un commento ironico al degrado morale che vediamo sullo schermo: è il sorriso amaro del dopoguerra.

Il film fu girato in parte nei veri canali di Vienna, in condizioni difficili e fredde, con le luci che rimbalzavano sull’acqua per creare riflessi spettrali. Le scene con Welles nei sotterranei vennero invece ricostruite a Londra, perché l’attore rifiutò di girare nelle fogne reali.

Agli Oscar del 1951 ottenne due nomination prestigiose: miglior regia per Carol Reed e miglior montaggio per Oswald Hafenrichter. Decenni dopo, nel 1998, l’American Film Institute lo inserì al 57º posto nella classifica AFI’s 100 Years… 100 Movies, consacrandolo definitivamente come uno dei vertici assoluti del cinema mondiale.

Il terzo uomo è un film che non smette di crescere nel tempo. È il ritratto di un mondo che ha perso la bussola morale, dove persino la luce è sospetta. Reed firma un’opera che resta scolpita nella storia per la sua forma perfetta e per la sostanza corrosiva, capace di unire intrattenimento e riflessione, suspense e poesia visiva. La sua forza è l’equilibrio: un noir che non vive solo di mistero, ma di atmosfera e consapevolezza. Ogni gesto, ogni sguardo, ogni silenzio sembra contenere un addio non detto, un mondo che si spegne nella disillusione. È un film che vive di contrasti: tra il bianco e il nero, tra l’amicizia e il tradimento, tra la superficie e le fogne. E lì, nel cuore del buio, nasce il mito di Harry Lime.

 

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