Regia di Woody Allen vedi scheda film
#UNQUARTODISECOLODICINEMA
Il mio rapporto con Woody Allen non è iniziato nel migliore dei modi. Mi ricordo che nel lontano 2014 (o 2015?) un mio amico mi portò a vedere in piazza Maggiore al cinema all’aperto Io e Annie, il capolavoro più iconico del regista newyorkese. Tuttavia la visione del film mi annoiò a morte perché non coincideva con i blockbuster action e fantascientifici che ero abituato a vedere all’epoca, infatti non ero per niente cinefilo e la logorrea alleniana non la sopportai per niente. Per fortuna negli anni successivi maturai come persona, e quando finalmente mi abituai ad un certo tipo di cinema meno commerciale e più autoriale, la revisione di Io e Annie mi folgorò a tal punto da iniziare a divorare gran parte della vasta filmografia alleniana, che mi tenne compagnia anche in uno dei periodi più bui della mia vita. La sua comicità istrionica veicolata attraverso i suoi brillanti dialoghi e la sua messa in scena semplice ma sempre stimolante, il suo esistenzialismo nevrotico e cervellotico, le sue mille idiosincrasie verso tutto e tutti, sono tutti quegli elementi distintivi che mi hanno fatto innamorare del suo cinema sospeso sempre tra dramma, commedia e metacinema. Alla fine per Woody Allen la vita è un’enorme tragicommedia, ma per viverla al meglio bisogna farlo con stile, e il maestro newworkese l’ha sempre dimostrato egregiamente in tutti i suoi film. Ritrovandomi in molti personaggi alleniani, ho quindi sempre sognato di vivere una vita come se fosse un set di un suo film; peccato che la vita vera sia assai più noiosa di quella che si vede nelle pellicole alleniane. Come disse Hitchcock decenni fa, infatti, “i film sono la vita senza le parti noiose”. Proprio per questo ogni volta vedere un film di Woody Allen è come psicoanalizzare la propria esistenza: si è immersi in un mondo sempre realistico e vicino al nostro, però si seguono relazioni, vicissitudini, scontri e contraddizioni tra fallibili esseri umani che magari non si vivono tutti i giorni e non li si prova sulla propria pelle. Insomma, il cinema di Woody Allen è una sorta di neo-neorealismo che non smette mai di specchiarsi perfettamente con le nostre esistenze quotidiane, ed è forse grazie a questa sua forza “realista” che il suo cinema è così semplice e al tempo stesso affascinante, dirompente e complesso. Non potevo dunque non mettere un suo film in questo mio quarto di secolo di cinema per omaggiare un regista che ha raffinato il mio senso dell’umorismo e fatto riflettere profondamente sulla mia esistenza tra dramma e commedia.
Basta che funzioni è forse uno dei suoi film più divertenti da vedere insieme al suo periodo settantino “demenziale”, in cui con un’incredibile leggerezza riesce a snocciolare il tormentato esistenzialismo di Boris Yellnikoff, un brillante fisico quasi premio nobel, alle prese con una stupidotta ragazzina del sud di nome Melody, che si trasferisce a casa sua sposandolo. Quello che mi ha colpito maggiormente riguardando per la terza volta questo film, è la filosofia alla base di tutto il suo sviluppo drammaturgico, ovvero “basta che funzioni”, che va contro l’iniziale tesi misantropa e nichilista che espone per quasi tutto il film il mitico Boris Yellnikoff. Nonostante la sua mente geniale, logica, matematica e filosofica, nonostante abbia capito quanto l’umanità con tutti i suoi problemi faccia sempre più schifo, nonostante riesca sempre a spuntarla quando deve discutere intellettualmente con qualcuno, Boris si rende conto di essere profondamente infelice. Cos’ha portato a arroccarsi nelle proprie convinzioni, nelle proprie idiosincrasie, nella propria torre d’avorio in cui vedere tutti come dei “vermetti” perché solo lui ha capito il senso ultimo della vita, ovvero che nulla ha senso? Nulla. Ed è infatti nel tenero e bislacco rapporto con Melody che Boris comprende il vero senza della vita, ossia vivere il tutto con più leggerezza, accettando chi è diverso da sé, aprendosi traquillamente a nuove prospettive, perché sono proprio quest’ultime a cambiare veramente la vita di una persona. Non un libro, un film o la classica chiacchierata tra amici autoreferenziale: ma è l’incontro col diverso, comprenderlo, metterlo sullo stesso piano umano e relazionale che cambia in modo salutare la propria esistenza. Questo capita anche a tutti gli altri solidissimi comprimari che accompagnano Boris nella sua bizzarra avventura con Melody: i genitori conservatori del sud della ragazza arrivando a New York riscoprono sé stessi, ma anche la loro figlia finalmente riesce a emanciparsi dal suo nucleo famigliare formato anche da Boris stesso, in cui finalmente può definirsi adulta o, almeno, sulla via per diventarlo completamente.
Ma, come ribadisce Boris nel finale, per compiere questo importante mutamento psico-antropologico serve sempre il famoso “culo” (Match Point insegna), ossia trovare le persone giuste al momento giusto: è infatti col suo secondo tentativo fallito di suicidio che riesce finalmente a trovare il vero amore, che non sarebbe riuscito ad accettare, però, se non avesse incontrato quel “vagabondo vermetto” di nome Melody.
Insomma, l’alter ego di Woody Allen si decostruisce magnificamente in meno di un’ora e trenta, in cui il regista inizialmente afferma che non sarà un feel good movie, ma in quel caloroso e splendido finale metacinematografico alla fine lo è a tutti gli effetti, ma alla maniera alleniana, ergo niente retorica facilona e nessun patetismo sentimentale, ma solo con una caustica e grande fame di dire: oggi voglio VIVERE. E per farlo veramente, signore e signori miei, dobbiamo buttarci e mischiarci nella massa, come disse un noto Alvy nella Basilica di Santa Croce di Lecce.
Grazie Woody Allen per questa ennesima lezione di vita.

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