Regia di Fabrice Du Welz vedi scheda film
Il furgone di un cantante nomade (Lucas) finisce in panne. L’uomo si ritrova così in un paesino della campagna francese dimenticato da dio, e trova rifugio presso un anziano vedovo (Berroyer) che, dice, ha un passato da artista e nessun venerdì in ordine. L’apparente ospitalità si trasforma presto in un sopruso continuo: per il cantante è l’inizio di un calvario fatto di sevizie, che toccherà lo zenith all’arrivo di altri bifolchi, in un villaggio di soli uomini dove le donne sono sostituite da animali e fantasmi del passato.
Non si capisce proprio il senso di un filmaccio del genere, diventato per qualcuno titolo di culto e persino premiato nei festival, nel quale l’ambiguità sessuale dell’intera comunità di villain è più esplicitata che suggerita. Uscito dalla testa di un autore ossessionato dal corpo e dalla violenza, il film trova nel cantante – di cui non si capisce l’arrendevolezza – la vittima sacrificale costretta all’eonismo, umiliata, crocifissa, inseguita nel fango, mentre attorno infuria una maschilità tossica che passa senza soluzione di continuità dalla danza sgangherata all’aggressione collettiva. Qualcuno ci leggerà un cupo apologo sulla perdita d’identità, sull’artista divorato dal proprio pubblico o addirittura una parabola religiosa, sostenuto da una fotografia volutamente sporca e vischiosa, tutta nebbia e pantani. Senza concessioni eccessive al raffinatissimo zelo ermeneutico dei soloni di turno, è più plausibile vederci un esercizio di crudeltà compiaciuta, che dopo una partenza discreta accumula umiliazioni, strappi di “poesia” grottesca e violenze sempre più gratuite, senza riuscire a essere davvero thriller, né horror, né satira, ma soltanto un’opera del tutto inutile.
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