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Sangue di condor

Regia di Jorge Sanjinés vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Sangue di condor

di (spopola) 1726792
8 stelle

Vincitore di moltissimi premi in quasi tutte le rassegne alle quali fu chiamato a partecipare, Sangue di condor passò con enorme successo anche dalla Mostra del Cinema di Venezia del 1969, ma poi impiegò ben sei anni per arrivare ad essere proiettato (fra il 1974 e il 1975)  nelle sale del circuito d’essai – allora molto consistente  e diffuso nella penisola, e ciò fu reso possibile solo dal fatto che dell’acquisto della pellicola  e della conseguente distribuzione, alla fine se ne fece carico una cooperativa dell’ARCI, perché altrimenti  anche questo titolo non sarebbe forse mai diventato fruibile per un pubblico non  prettamente “festivaliero” (era stato comprato anche dalla Rai e da questa regolarmente doppiato, ma evidentemente per lasciarlo “marcire” nei propri magazzini, poiché all’acquisto non seguì poi alcuna programmazione in rete, e questo la dice lunga sulle ragioni di una “scelta”, specialmente se si considerano i contenuti dell’opera e se si valuta anche come davvero poche cose sono cambiate nel frattempo  – soprattutto nella sudditanza assoluta al potere -  in questa “istituzione” di regime).

Giovanni Grazzini, sulle pagine del Corriere della Sera, stigmatizzando  questo l’imperdonabile ritardo, colpevole comunque principalmente un mercato che già allora si stava dimostrando fortemente “riluttante” di fronte ad opere di assoluta “rottura” degli schemi come questa, scrisse un velenoso articolo fortemente polemico che cominciava così: Sei anni di ritardo, e una circostanza distributiva decisamente insolita: il dato è di estrema rilevanza, ma almeno questa pellicola finalmente ce l’ha fatta ad arrivare sui nostri schermi. La circostanza però merita una riflessione perchè fin quando il grande pubblico non sarà pienamente consapevole delle condizioni di minorità in cui è tenuto dai grandi manovrieri del mercato, i quali per ragioni di politica o di cassetta lo derubano spesso di film in cui si esprimono i valori di culture soltanto geograficamente lontane, lo spettatore italiano avrà infatti una visione distorta, parziale e provinciale del fatto cinematografico inteso anche come effettiva “creazione artistica” e diffusione culturale del pensiero. Ogni film di qualità sottratto al confronto e al giudizio della platea delle sale infatti, non soltanto priva quel pubblico di stimoli, di idee e di conoscenza: impedisce anche al cinema (e la “censura” operata per ostacolare  la circolazione di “Sangue di Condor” proprio questo ha tentato di fare) di esprimere appieno la sua funzione di nutrimento culturale, sociale e artistico  per bloccarlo su spazi regressivi.

Sembra quasi che si parli del presente, non vi pare? Perché la situazione non è assolutamente migliorata, anzi se possibile si è ulteriormente depauperata ed è destinata a peggiorare ancora di più se ci si guarda intorno (tanto per fare un esempio pratico  fra i più recenti, l’acquisizione da parte del Gruppo De Agostini della coraggiosa Mikado – una delle poche realtà interessate alla marginalità “creativa” delle cosiddette cinematografie minori da sempre “benemerita”  in questo campo e alla quale si deve davvero tantissimo,  come la scoperta e la diffusione del primo Wenders, di Davies,  Zhang Ymou  e un altro centinaio e più di nomi diventati importanti, fino ad arrivare allo straordinario, “incompreso” Guadagnino di Io sono l’amore dello scorso anno – sembra che sia stata “costretta”  dalla nuova proprietà a cessare da subito ogni attività distributiva in campo cinematografico,  causa gli scarsi “ritorni” economici, e quindi per meri  motivi di “capitale”: se davvero la cosa venisse confermata come sembra che stia proprio accadendo, un altro duro colpo verrebbe ad essere così inferto all’indipendenza delle scelte,  e al di là dei problemi anche occupazionali che ne deriverebbero, viene lecito domandarci che fine farà tutto quello che era già stato acquisito nel suo carniere, compreso il titolo più chiacchierato e premiato all’ultima mostra di Venezia, quel Ballata dell’odio e dell’amore”  di Alex de la Iglesia tanto apprezzato da Tarantino, che potrebbe a questo punto persino non arrivare più sui nostri schermi, per lo meno in questa stagione).

Adesso c’è internet con la sua rete di connessioni, più che il segmento dell’home video, che ci permette all’occorrenza di visionare “per vie traverse” molte più cose interessanti di quanto il mercato ci propone, ma allora non c’erano alternative, la mancata distribuzione di un film significava l’oblio (e quale miglior difesa di questo escamotage per preservarsi da pericolose incursioni di preoccupante “carattere ideologico” se l’opera veicolava messaggi sgraditi al potere e agli “alleati”?).

Sangue di condor fa appunto  parte di quella categoria molto scomoda visto che lo potremo definire a tutti gli effetti cinema “di guerriglia” (del quale nel frattempo se ne sono quasi del tutto perse le tracce). Si tratta infatti di una pellicola di dichiarata e attiva “militanza politica”, che deve proprio a quel  profondo spirito “antiamericano” che espone ed esprime con tanto rigore circostanziato, gran parte delle sue vicissitudini “conoscitive” all’origine del  ritardo distributivo e che hanno impedito probabilmente anche successive fruizioni negli altri canali di “sfruttamento commerciale” di una pellicola adesso esistenti (programmazione sulle reti televisive, il mercato dell’home video, etc.) , rendendolo di nuovo e ancora una volta, una rarità “quasi del tutto invisibile”.

Eppure è un’opera che al di là del messaggio politico che veicola sul quale soprattutto adesso potremmo anche avere molto da discutere, visto come sono cambiati i tempi, possiede in se valori “artistici” di assoluta rilevanza che la rendono un film eccellente, di potente arcaicità, così “secco” ed essenziale nello stile e nel suo bianco e nero deciso e stridente, che potrebbe persino ricordare molto da vicino la migliore lezione ejzenštejana (principalmente l’incompiuto Lampi sul Messico, ma anche Sciopero e La corazzata Potëmkin), e che proprio per la prepotenza dirompente ma francescana  delle immagini,  può rimandare anche alla straordinaria mediazione fra visione poetica e realtà sociale de L’uomo di Aran di Robert Flaherty (anche se ovviamente qui si dovrebbe parlare semmai di un Flaherty rivisitato e reinterpretato alla luce della cultura marxista).

E quanto ai contenuti, nel film c’è prima di tutto il ritratto vivo, nobilissimo, allarmante, di una cultura primitiva, quelli degli indios che vivono sugli altipiani della Bolivia, una popolazione rimasta fedele  alla lingua dei propri padri, fiera dei propri valori e delle proprie tradizioni, adoratrice del sole, emarginata dalle società occidentalizzate delle città che la guardano con sospettosa circospezione, e probabilmente condannata a una progressiva decimazione dalla logica implacabile dell’imperialismo (sarebbe curioso verificare cosa è rimasto ancora adesso di tutto quel patrimonio ancestrale così stratificato e quanto l’urbanizzazione progressiva delle menti  dovuta all’espandersi del consumismo, ha lasciato di inalterato di quel progetto straordinario di “sopravvivenza” naturale descritto dal regista). Poche volte il cinema ha colto infatti con altrettanta precisione la tragicità del momento in cui una cultura ferita a morte  comincia a disgregarsi nel sottosviluppo.

La preoccupazione del regista è stata comunque anche qui quella di conciliare al meglio proprio un “ideale politico” con la sua personale “idea di cinema” portata avanti attraverso l’attenta osservazione della realtà che lo circondava, come del resto ha sempre fatto per oltre un ventennio, a partire da Ukamau (Cosi è) del 1966, nel realizzare  con assoluta coerenza, un cinema “indigenista” (i protagonisti di quelle opere sono sempre gli indios quechua o aymará delle alture andine)  quasi documentale di una condizione di vita, ma di impegno militante nelle conclusioni, e unificato dal prioritario filo conduttore della denuncia, nel tentare di porre così una strenua barriera di difesa alle tradizioni, una modalità estremamente rigorosa ma non del tutto esente da punte di schematizzazione demagogica nel suo porre sempre in piano il rapporto conflittuale di serrata opposizione non soltanto ideologica,  fra il popolo sfruttato che cerca la vita  e il capitalismo sfruttatore che porta la morte, che diventa quasi lo scontro programmatico di due culture e la risposta nazional-popolare all’invasione inarrestabile e violenta del capitalismo, per indicare una alternativa possibile, in un periodo  in cui si riusciva ancora – fortunatamente – ad esprimere su queste concezioni contrapposte, una coscienza fortemente critica. Non va dimenticato per altro che Jorge Sanjinéz  - regista dell’opera - in quegli anni era anche portavoce di una larga corrente d’opinione del Terzo mondo e della sinistra antimperialista,  convinta che l’opera di assistenza compiuta dalle missioni mediche USA in alcuni paesi del sottosviluppo latino-americano, col pretesto di aiutare le popolazioni nei loro bisogni, fosse invece principalmente indirizzata ad impedire (o meglio soffocare)  ogni possibile alternativa di crescita e di sopravvivenza, e che era talmente impegnato su questo fronte un po’ barricadero, da essere costretto a fuggire dalla sua patria d’origine - dopo il colpo militare di La Paz - per rifugiarsi nell’altrettanto “martoriato” Perù.

Come si può vedere comunque, i temi sono davvero forti e tutt’altro che superati, perché ben presenti, seppure ormai in forme molto differenziate,  anche nella contemporaneità (basta rivolgersi verso l’altra sponda del Mediterraneo per constatarlo e per doversi confrontare ancora una volta con le nostre insipienze di opportunisti tentennatori occidentali rispetto alla violenta potenza di una  determinazione quasi eroica che si estrinseca in protesta radicale e definitiva, costi quel che costi, portata avanti anche a rischio della vita stessa).

 

Sanjinés ha più volte affermato fra l’altro (confermando così la sua visione) che nel film non c’è niente di inventato e che ogni episodio narrato corrisponde all’autentica realtà boliviana di quel periodo, compreso l’esistenza di centri cosiddetti “scientifici” gestititi da missioni nordamericane (i Peace Corps che affermavano di operare in nome di un futuro più pianificato per tutti) ma che avevano invece a suo avviso il compito primario di frenare  l’aumento demografico della popolazione indios per mezzo della sterilizzazione “non autorizzata” delle donne con una studiata,  programmata iniziativa tutt’altro che umanitaria e tesa unicamente a portare lentamente, se non proprio all’estinzione, a una decimazione progressiva della civiltà india, ritenuta ormai superflua e anacronistica.

E questa deprecabile realtà (l’ intervento di una civiltà cosiddetta “superiore” su una inferiore per modificarla e ridimensionarla) il regista ha voluto mostrarla mettendo in luce proprio il volto più ipocrita e vile del neo-colonialismo, che si propone(va)  di defraudare una tradizionalità atavica della sua caratteristica popolare e nazionale,  per  “soggiogarla” ai propri modi di vita più “avanzati” e ipocriti.

Ma nella storia che qui ci viene raccontata, le donne alla fine si ribelleranno  a quella strumentalizzazione opportunistica dei loro corpi, e il loro atteggiamento difensivo di una rivendicata“integrità” fisica, scatenerà la vendetta degli uomini del villaggio che mutileranno, castrandoli, proprio quei medici yankee  arrivati nella comunità “a portare la morte nel ventre delle loro donne”.  La polizia interverrà ovviamente in massa, seminando morte e distruzione, e  costringendo alla latitanza i pochi sopravvissuti fra i quali anche il protagonista, ferito gravemente che, trasportato  all’ospedale di La Paz, sarà lì assistito da un fratello alla impossibile, disperata ricerca del plasma indispensabile per garantire la sua sopravvivenza.  Al termine di una faticosa odissea clandestina senza esito perché per la mancanza di soldi nessuno sarà disponibile a concedere  “gratuitamente” quel sangue necessario a salvare una vita, Sixto, il fratello, amareggiato e rabbioso, tornerà  così molto cambiato al villaggio natio e ormai divenuto pienamente consapevole dei perversi  meccanismi economici e culturali che governano la società latino americana (e non solo), imbraccerà alla fine il fucile per imboccare la via più estremizzata della guerriglia, nella prospettiva di poter così riportare un giorno il suo popolo alla propria indipendenza e di renderlo di nuovo libero di vivere secondo i dettati della propria  cultura, non vessato  né economicamente  asservito  da potenze esterne, ritrovando intatta la forza,  il coraggio e la determinazione che aveva in un tempo ormai  molto lontano e remoto, prima cioè dell’arrivo del colonizzatori spagnoli da cui cominciarono tutti i suoi guai.

 

Come si può ben immaginare, lo schema è dunque elementare (quasi da manuale): un poverissimo villaggio della Bolivia andina, i “gringos invasori” arrivati non per porgere un aiuto ma con l’intento di non far nascere più bambini con la connivenza delle autorità locali, la presa di coscienza dei fatti, la ribellione, il massacro, il sacrificio, e la “rivolta” guerrigliera finale.

Elementare senz’altro, ma come si è visto, è poi  tutt’altro che sciatta la realizzazione proprio grazie all’efficacia assoluta del crudo e diretto linguaggio utilizzato dal regista  che riecheggia oltre ai riferimenti già sopra evidenziati, anche i modi tipici  del cinema povero e arrabbiato del periodo (un elemento certamente distintivo, ma che  rende in alcuni passaggi l’opera un po’ datata e in parte da contestualizzare), tratti da reportage cinematografico alternati a elaborati flashback esplicativi, oltre che “memorie indirette” di  neorealismo riscontrabili però principalmente nella estrema povertà dei mezzi impiegati e nell’utilizzo di interpreti non professionisti presi dalla strada, tutti efficacemente coinvolti nel riprodurre le proprie esperienze di vita. Il risultato complessivo, è qualcosa di insolitamente coinvolgente, perché come spesso accade ai registi magari di impostazione didascalica, ma di talento, essi riescono poi a trarre il massimo profitto non solo dalle difficoltà e dalle ristrettezze economiche, ma anche da elementi in apparenza controversi (tanto che qui gli aspri paesaggi montani magnificamente fotografati ed i volti intensissimi degli interpreti indios si caricano spesso di viva e sentita  emotività fino a  “regalare” all’opera, oltre al forte peso storico derivante dal dramma culturale, sociale e politico messo in campo, anche un buon esito sotto il profilo figurativo e una sentita partecipazione emozionale da parte dello spettatore).

Riferendoci  comunque a una tragica particolarità di fatti degni di Hitler, se una falla possiamo trovarla nell’equilibrio sostanziale del risultato,  questa va semmai rintracciata nel non aver dato alla denuncia anche una adeguata “documentazione” provata della veridicità assoluta, della quale però non c’è assolutamente da dubitare, poiché in ogni caso sappiamo “per certo” che c’è stato davvero un tempo in cui gli ostetrici americani presenti in Bolivia, sterilizzavano a loro insaputa le partorienti indigene che si trovavano ad assistere e che avevano già una consistente prole in famiglia. In ogni caso non sarebbe poi questo un aspetto che incide più di tanto, poichè Sangue di condor è davvero un film sorretto dall’infuocato sdegno che esprime magnificamente per accadimenti terribili rappresentati come  un vero e proprio stupro perpetrato ai danni della propria identità etnica.

Una pellicola dunque che trasmette prepotente una fortissima carica di tensione anche sociale e che ha rappresentato una vera e propria svolta nel processo di crescita e di rinnovamento della cinematografia dell’intero  mondo latinoamericano  che si pone per questo proprio come riconosciuto capofila di una dichiarata alternativa anche culturale “indigenista” e di guerriglia di riproduzione della realtà, alla corrente del Cinema nôvo” brasiliano di quello stesso periodo, che sembrava invece intenzionata ad andare in tutt’altra direzione. Per quanto riguarda  poi il  personale percorso artistico del regista, è senz’altro questo il suo film più importante e riuscito, e soprattutto quello che sembra mantenere ancora adesso maggior rigore e originalità, sia pure inquadrato nella prospettiva (un po’ datata, come si è visto) di una cinematografia  autenticamente nazionale e rivoluzionaria.

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