Regia di Ettore Scola vedi scheda film
Partiamo dalle origini del film: Ettore Scola non ha mai nascosto la sua adesione al PCI, aggiungiamoci uno sceneggiatore che porta il nome di Diego Novelli, iscritto al PCI dal 1960 e giornalista de L’Unità dal 1961 nonchè eletto Sindaco di Torino dal 1975. A tutto questo mettiamo un cappello: il film è commissionato dalla Unitelefilm, quindi difficile non vederne un prodotto di sostanziale propaganda. Se il primo approccio è anche nobile e registicamente accurato, con una descrizione di una Torino a due facce, con episodi di solidarietà (il giovane cameriere che accoglie il protagonista Fortunato, contrapposto alle ignominionse condizioni proposte per gli alloggi da coloro che speculavano sulle esigenze degli immigrati) man mano emergono delle caratteristiche tipiche della produzione di Scola. Innanzitutto l’incapacità di svincolarsi da una precisa ideologia del momento, accompagnata a dei discorsi fin troppo “elevati” rispetto ai personaggi che li esprimono. Lo vediamo dalla lunga dissertazione del sacerdote, che persino invita il giovane Fortunato a coalizzarsi e lottare per i propri diritti insieme agli altri operai, precisando che in tutto questo non vi è nulla di rivoluzionario; ma anche il compaesano sindacalista che invita a partecipare ai ritrovi ed alle manifestazioni (precisando che non è rischiesto di iscriversi al partito) imposta una filippica tra sfruttamento e connessioni tra fascismo e Democrazia Cristiana: i “fascisti che hanno uscito dalle fogne” legati a Scelba e Piersanti Mattarella (!!!). Ancor più odiosa la saccenza della protagonista femminile, che ben incarna l’intellettualismo che imperversava in quegli anni: studenti di buona famiglia impegnati in un disegno distruttivo di ogni forma di capitalismo e di gerarchia del potere o dell’azienda. Infine appare agghiaccante l’ultima “tirata” con Fortunato che esorta i parenti nel meridione a non restare affscinati da possibilità di sviluppo e di benessere nel nord o all’estero, descrivendo la realtà della fabbrica e della grande città Torinese appunto come un incubo e come uno strumento di sopraffazione dell’individuo a favore del Capitale. Come detto, con un approccio così politicizzato il film perde gran parte della forza documentaristica e naturale che potevano aver avuto opere ben più nobili, viene in mente Il posto di Olmi, dove lo spaesamento e le difficoltà di un giovane (peraltro della provincia di Milano, quindi non un immigrato dal sud) apparivano ben più autentiche e meno ideologizzate. A proposito di ideologia, le tematiche così estreme portate avanti dal regista (e dallo sceneggiatore) erano già state in gran parte messe alla berlina dalla letteratura e dalla cinematografia contemporanea: Elio Petri con La classe operaia va in paradiso non aveva fatto sconti alle anomalie del sistema sindacalista e delle proteste di partito, altrettanto la commedia aveva irriso certe dinamiche, ricordo un episodio del poco memorabile Contestazione Generale, dal titolo Concerto a tre pifferi dove Nino Manfredi, dirigente di un’azienda padronale evidenzia al figlio studente universitario e contestatore dell’intero sistema, tutte le contraddizioni ed i privilegi della vita borghese che lui stesso conduce. Ma tornando all’opera di Scola si avverte proprio l’assenza di un grande protagonista: la FIAT. Dietro al nome di questa azienda che viene più e più volte vituperata perchè assume immigrati ma non si preoccupa di dar loro un alloggio, perchè non ha aggiornato il valore del cottimo all’inflazione del momento, perchè sostiene certi partiti (non di sinistra), addirittura perchè è troppo presente nella vita del lavoratore (lavoro in FIAT, dopolavoro in FIAT, colonie estive per figli in FIAT e piscine gestite da FIAT) ecco che manca tutta la complessità di quel momento in ambito produttivo, in termini di tensioni sociali e di perdita di produzione e affidabilità che posero seriamente le basi per una tale anarchia negli stabilimenti produttivi che difatti si risolse all’inizio del decennio successivo con la marcia dei 40.000 sotto lo slogan: “vogliamo la trattativa, non la morte della FIAT”. Il corto respiro del film, così come l’ideologia che c’è alla base, si avverte nel non voler constatare le anomalie del fenomeno di protesta che vengono incensate (peraltro ancora oggi in molti casi) ma che spesso avevano esclusivamente delle finalità politiche o di appoggio dalle grandi masse, piuttosto che di effettivo miglioramento di condizioni dei dipendenti. Ricordiamo, chi ha vissuto il contesto manifatturiero di quegli anni, che, ideologie a parte, erano gli anni dell’assenteismo a doppia cifra, erano gli anni in cui capi reparto e dirigenti erano costantemente minacciati e vilipesi dai subalterni in nome della lotta di classe, erano gli anni in cui vari dirigenti, in particolare della FIAT, dovevano muoversi con la scorta e che tra gli studenti che distribuivano volantini fuori dalle fabbriche, molti inneggiavano al sabotaggio produttivo o ancor peggio alla violenza. Ricordiamo anche il caso, molto similie a FIAT, dell’Alfa Romeo, ancora oggi rimpianta come gioiello tecnologico, ma che in quegli anni produceva auto in perdita di circa il 20% rispetto al valore a cui veniva venduta. Oggi mi fa specie anche leggere pagine di Giorgio Bocca che negli anni ’80 interrogava politici, manager ed economisti in un articolo dal titolo “Tecnoologia e addio operai, vince chi si adatta” ove veniva evidenziato che lo stesso assenteismo era una forma di lotta di classe per cui le aziende erano costrette ad assumere quantità di manodopera in surplus per sopperire alle assenze: problema risolto con l’introduzione di sistemi automatizzati e prontamente stigmatizzati da una certa parte politica (come se all’estero le aziende non cercassero di individuare i processi produttivi più competitivi ed efficienti presenti sul mercato). Ci si dimentica infine a che cos’era ridotta la FIAT negli anni ’70, ma anche l’Alfa Romeo o i grandi gruppi industriali appartenenti all’IRI: enormi rifugi di occupati, spesso in cassa integrazione, spesso con contributi di vario genere ma assolutamente fuori controllo in termini di produttività ed efficienza; per dirne una lo stabilitmento Alfa Romeo di Pomigliano era tra i più improduttivi del marchio, con addirittura (ma questo avveniva anche altrove) un reparto dedicato a ricontrollare le vetture prodotte in quanto la presenza di anomalie dovute a inaccuratezze e sabotaggi era pressochè costante. Ecco dunque, l’assenza di una visione più pragmatica con le esigenze del mondo produttivo, che non è fatto solo di richieste e di ideologie di classe, ma soprattutto di confronto con il mercato estero.
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