Regia di Leonardo Di Costanzo vedi scheda film
Condannata a vent'anni di reclusione in una struttura carceraria modello in Svizzera per l'omicidio della sorella, trascorsi i primi dieci Elisa (Ronchi) entra nel programma di studi di un criminologo (Zem), il quale la stimola a ricordare l'evento del sororicidio, che nella mente di Elisa è soltanto un groviglio di tracce confuse. A mano a mano, la donna riuscirà a mettere a fuoco il gesto compiuto.
Leonardo Di Costanzo continua a concentrare i propri lavori in spazi circoscritti (L'intervallo, L'intrusa, Ariaferma), stavolta a partire dal libro di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali "Io volevo ucciderla", sul caso reale di Stefania Albertani. L'ambientazione in un carcere futuribile, più scandinavo che svizzero, elimina ogni pretesto sociologico: niente celle scrostate, niente sovraffollamento, solo fredde superfici che rendono impossibile fuggire dall'essenziale, cioè la mente di Elisa. Il film è interamente centrato sul processo di abreazione della protagonista, un'indagine della memoria che si affida quasi solo alla parola, recludendo l'azione nei flashback. Così, Elisa procede monocorde, un po' come un saggio filmato che sembra porre domande sulle ragioni di gesti assurdi senza mai scavare fino in fondo (il bisogno di piacere a tutti? Bene, ma perché?). Attorno a lei si muovono figure ridotte a bozzetti - il padre (Diego Ribon), la guardia carceraria (Giorgio Montanini) e la madre ferita di Valeria Golino - mentre la vera forza del film resta il duetto tra un intenso Zem e una Ronchi che regge lo sguardo della macchina da presa con disarmante precisione. Certo, il risultato convince più sul piano formale che su quello emotivo, e il percorso verso il perdono rimane abbozzato: un cinema che riflette molto e vibra poco.
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