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Un semplice incidente

Regia di Jafar Panahi vedi scheda film

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La recensione su Un semplice incidente

di Ponky_
8 stelle

Può un semplice incidente frammentare un clima di apparente ordinarietà, lasciando intravedere un sospetto filo istituzionale che si dipana, dall’alto verso il basso, fino a raggiungere capillarmente ogni individuo?

Jafar Panahi smuove i cocci e rivela quello che non è solo un filo, bensì un’idra di cappi che adornano i colli dei persiani fin dalla nascita, in una morsa che consente solo il minimo movimento, vigilato da un controllo il cui raggio giunge fino alla parola.

Benché reduce da anni di vessazioni carcerarie e restrizioni della libertà artistica e personale, egli non rinuncia a lanciare un incondizionato messaggio d’amore per il proprio paese e, soprattutto, per il popolo che lo qualifica come tale, imbastendo parallelamente un’indagine di carattere etico che pondera sull’idea di vendetta quale strumento non dirimente dei conflitti collettivi, ma anzi utile unicamente a foraggiare una dottrina che se ne nutre avidamente.

Il cineasta prosegue nella propria esplorazione umanistica e politica, con la sharia a popolare il fondale sul quale scorre la macchina da presa che, con tempi dilatati, introietta nello spettatore, a piccole dosi costanti, tutta la tensione che attraversa i protagonisti, spostando il fuoco dall’urgenza di sovversione artistica esperita in prima persona a quella civica del privato cittadino, suggerendo come la responsabilità individuale rappresenti la base stessa della piramide sociale: se marciscono le fondamenta, non può restare intatto il vertice.

Pur non presentando un nucleo narrativo inedito, le inevitabili implicazioni che emergono dal radicamento della pellicola nella cultura iraniana ne amplificano esponenzialmente i risvolti, trasmissibili ad un pubblico più vasto rispetto al passato grazie alla oculata scelta di avvalersi della finzione pura.

Nella scena d’apertura, avvolta nella buia notte di Teheran, il torvo volto del (presunto) aguzzino viene scolpito da ombre e riflessi purpurei a rievocare le sanguinolente nefandezze compiute, sebbene questi si ritrovi, in quel momento, immerso in un contesto di lieta quotidianità familiare: si palesa così una chiara volontà di umanizzare il nemico, collocandolo in una dimensione terrena dove possa aprirsi un’onesta riflessione sul rapporto tra vittime, carnefici e le sovrastrutture che governano questi ultimi, da cui, spesso, sono anch’essi oppressi.

Lungo l’intera durata, ogni tipo di violenza esplicita è rifuggita e, quando presente, resta fuori campo, quasi come fosse superfluo mostrarla nella propria mera esecuzione, valorizzando piuttosto le concause che la determinano e convogliando l’attenzione sulla pena psicologica, un’eterna tortura silenziosa sospesa tra istinto e razionalità.

La regia rifiuta dunque qualsiasi voyeurismo, scegliendo di aderire all’incertezza degli sguardi e dei volti; in primis, a quello di un protagonista che, spesso inquadrato di profilo, pare avvertire la plumbea presenza della macchina da presa a ore tre, quasi come un’arma puntata pronta a esplodere il ferale colpo al primo passo falso.

L’uso esclusivo dei rumori ambientali in luogo della musica extradiegetica amplifica il senso di immersione e costante minaccia: ogni suono, anche il più innocuo se estrapolato dal contesto - in particolare, lo scatto meccanico di un arto artificiale - può divenire eco del dolore passato e presagio di quello futuro.

Il tono ironico che attraversa la parte centrale, sovrapponendo diversi piani di surrealtà, è calibrato con intelligenza e favorisce la tragica verosimiglianza di una storia che assume contorni universali, trovando come comune denominatore il senso di innata umanità che contraddistingue ogni individuo. In questo scenario, il perdono e la comprensione reciproca divengono così l’unica via percorribile, la medicina per un apparato malato.

La mossa vincente di Panahi non consiste nel limitarsi a osservare e riportare i fatti — che, nella condizione iraniana, sarebbe comunque un gesto audace — quanto invece nel formulare un giudizio netto, vagliando il dubbio in un sistema che non lo concede, dove la legge si tramuta in strumento di terrore e repressione, senza spazio per un lieto fine. Quella protesi che stride - per un’ultima volta e per sempre - alle spalle del protagonista, diventa così metafora della pervasiva presenza del regime, che non interrompe il proprio pedinamento per nessuna ragione al mondo, perché farlo significherebbe tradire le stesse basi sulle quali fonda il proprio potere.

Tuttavia, ciò che nello sconforto permane inarrestabile è l’evoluzione di una società che crede sempre maggiormente nel potere delle proprie azioni, in cui le giovani donne, ormai spesso riluttanti a costrizioni come l’obbligo dell’hijab, iniziano di fatto a violare i dettami dello Stato, alimentando una consapevolezza collettiva che prende forma con crescente nitidezza, nell’auspicio di un avvenire in cui possa essere proprio la morale a farsi motore del cambiamento.

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