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La trama fenicia

Regia di Wes Anderson vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La trama fenicia

di IlCinefilorosso
6 stelle

Benicio Del Toro

La trama fenicia (2025): Benicio Del Toro

 

Con la trama fenicia, Wes Anderson conferma la propria adesione a una poetica ormai pienamente riconoscibile, iscrivendo il film nel solco estetico e tematico delle commedie drammatiche che da sempre contraddistinguono la sua produzione. 

Da un lato vi è la forma barocca, intesa come arte dell'eccesso formale, della decorazione, della stratificazione, uno stile ricco di dettagli (oggetti, arredi, costumi) costruito su colori pastello, simmetrie complesse e prospettive artificiose, narrativamente stratificato (storie dentro storie, cornici su cornici) e talvolta volutamente ridondante, quasi manieristico.

Poi vi è il racconto di formazione, in cui anche quando i protagonisti sono adulti la narrazione li mette d'innanzi ad un percorso di consapevolezza o riconciliazione con il passato.

Si tratta di viaggi individuali che Anderson trasforma in favole malinconiche, spesso ironiche, che riflettono sulla crescita, sul fallimento e sulla memoria.

In film come Moonrise Kingdom o Rushmore, per esempio, il racconto è legato all'adolescenza e alla scoperta di sè, mentre nei Tenenbaum o Grand Budapest Hotel, adulti e ragazzi condividono lo stesso viaggio esistenziale, dove l'identità e il senso di appartenenza sono in crisi o in trasformazione. 

 

Mathieu Amalric, Michael Cera, Benicio Del Toro, Mia Threapleton, Jeffrey Wright

La trama fenicia (2025): Mathieu Amalric, Michael Cera, Benicio Del Toro, Mia Threapleton, Jeffrey Wright

 

L'estetica così marcata del cinema di Anderson, inizialmente, era funzionale alla costruzione di mondi coerenti, chiusi, ordinati, in cui i personaggi (spesso emotivamente caotici o fragili) potevano muoversi.

L'eccesso di controllo formale si poneva così in contrasto con il loro disordine interiore.

E questo contrasto produceva sì un senso di straniamento (simile a quello prodotto dal teatro brechtiano o da lavori di pittori americani come Edward Hopper) ma anche lucida empatia : lo spettatore non si perdeva nel dramma, ma lo osservava a distanza, venendo comunque toccato dalla verità emotiva.

L'uso del décor anni '50-'60 non era solo elemento nostalgico : quegli oggetti, quel design, quel "mondo perduto" suggerivano una memoria culturale collettiva, un passato mitico, infantile, più semplice. Ma all'interno di quel mondo ordinato, i personaggi erano smarriti e dovevano crescere.

 

Questa dialettica costante tra ordine e caos ha sempre rappresentato uno degli elementi più interessanti della poetica andersoniana, dove l'ossessione per il controllo finiva spesso per rivelare incrinature e fessure emotive, e quindi la sua natura illusoria. Il suo interesse stava proprio lì: nel mostrare come gli esseri umani provassero a dare forma al disordine della vita, costruendo sistemi (famiglie, rituali, espressioni artistiche, regole), ma senza mai riuscirci del tutto.

 

A partire da The Grand Budapest Hotel, che riusciva però a mantenere un equilibrio tra forma e contenuto, funzionalizzando la stilizzazione visiva al racconto e uniformandola al tono favolistico/grottesco, si è assistito a un progressivo processo di radicalizzazione stilistica: il linguaggio visivo, già fortemente codificato, si è fatto via via più autoreferenziale e stratificato, fino a toccare il compiacimento formale.

Un'estetica che si è irrigidita fino all'esasperazione, diventando una gabbia espressiva più che uno strumento di racconto.

The French Dispatch, da questo punto di vista, rappresenta il punto più estremo di questo processo : viene celebrato il racconto, ma attraverso la frammentazione, la moltiplicazione dei piani, le voci, i generi, gli stili visivi, i formati, fino al cortocircuito.

Una stratificazione formale (cambi di formati, di colore, di tono) che trasforma il film in un oggetto da osservare confusamente più che da vivere emotivamente. Quell'ordine che prima serviva a incorniciare il tumulto interiore, qui diventa fine a se stesso, sostituito da un'intellettualizzazione dell'affetto, da una distanza controllata che cade nello sterile.

Una sensazione di vuoto, isomma, che persiste anche nel successivo Asteroid City, che non è, però, un'opera sull'arte del racconto (come French Dispatch) ma una meditazione sulla costruzione di mondi fittizi, un film-cervello molto più astratto e riflessivo, con una struttura a Matrioska, in cui Anderson pone in evidenza la consapevolezza dell'artificio narrativo, mostrando apertamente i meccanismi del proprio cinema. Insomma, il grado zero della sua poetica.

 

Con La Trama Fenicia, sua ultima fatica, sembra invece tentare di ritrovare equilibrio, tornando ad una narrazione più compatta, centrata su un nucleo emotivo chiaro (il rapporto padre-figlia) e su un viaggio che è insieme sia sentimentale che simbolico.

La struttura narrativa del film si sviluppa secondo un impianto episodico, articolato in blocchi distinti e scanditi da didascalie che introducono i protagonisti a nuovi scenari.

Ogni segmento assume i contorni di un capitolo autonomo, evocando la forma di un romanzo d'avventura illustrato o di un racconto per immagini.

In questo modo, Anderson riconnette la sua consueta grammatica visiva fortemente stilizzata a un'organizzazione narrativa più lineare e accessibile.

Ambientato negli anni '50, epoca segnata dal dopoguerra e dall'emergere della cultura pop, La Trama fenicia sembra riecheggiare, in miniatura, il respiro politico di Quarto Potere e quello avventuroso di Lawrence d'Arabia.

I personaggi di Zsa-zsa Corda e Liesl si muovono attraverso scenografie che mutano continuamente, evocando la teatralità trasformista del cinema di Méliès e sottolineando, al contempo, la vocazione artigianale e il ruolo da prestigiatore di Wes Anderson: un cineasta che costruisce mondi come fossero illusioni visive, orchestrando ogni elemento con precisione quasi miniaturistica e rivelando la finzione come parte integrante dell’esperienza estetica.

 

Se da un lato Anderson sembra riavvicinarsi, quindi, alla struttura più intima e al racconto familiare delle sue prime commedie drammatiche, dall’altro prosegue il suo discorso sugli eventi oscuri e le contraddizioni irrisolte della prima metà del Novecento, inglobando interrogativi esistenziali — in primis quello della mortalità — all’interno di una cornice solo in apparenza leggera e satirica. Il racconto si articola infatti attraverso una successione di gag e meccanismi comici che guardano con evidente affetto alle slapstick comedy degli anni Venti, in particolare all’opera di Buster Keaton, da cui Anderson eredita la centralità del corpo come motore narrativo e l’uso espressivo del movimento nello spazio scenico.

 

Sul piano tematico, La trama fenicia si configura come un racconto di riconciliazione e ricerca di senso, in cui il conflitto tra materialismo e spiritualità prende forma nel contrasto tra Zsa-zsa, figura cinica e manipolatrice, e sua figlia Liesl, che ha scelto la vita monastica. Se da un lato il viaggio racconta le manovre di Corda per consolidare il proprio potere e preparare la figlia a raccoglierne l’eredità, dall’altro mette in scena il progressivo disvelamento di un vuoto interiore che spinge il protagonista verso una forma di redenzione. Il film si chiude così su una domanda dal sapore dickensiano: a che serve costruire un impero, se nel farlo si è perso tutto ciò che conta davvero? In questa tensione, giocata tra la farsa e la confessione, Anderson sembra ritrovare un certo equilibrio tra forma e contenuto. Il virtuosismo stilistico, pur restando centrale, non soffoca la narrazione, ma si intreccia con una riflessione morale, in cui la dimensione estetica si fa strumento per interrogare il senso del potere, della perdita e della redenzione.

 

Benicio Del Toro, Mia Threapleton

La trama fenicia (2025): Benicio Del Toro, Mia Threapleton

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