Regia di Wes Anderson vedi scheda film
Un film spassoso e dalla tecnica ancora impeccabile che nasconde il desiderio di Wes Anderson di cercare il sentimento dietro l’immagine di un mondo “manipolato e immaginario”
Andrebbe detto questo riguardo a Wes Anderson e alla sua capacità di creare i suoi mondi caratteristici. Puó essere considerato infatti uno dei migliori registi contemporanei a mostrare una inconfondibile vena eccentrica e visionaria in cui regnano incontrastati ordine e precisione lontano da ogni rischio di “manipolazione” (giá il precedente “Asteroid City” aveva messo in scena il concetto analizzando il rapporto tra media e attuazione/recitazione). Invece avviene il contrario; immaginari, citazioni (artistiche, letterarie o scientifiche che siano), sproloqui (che vanno dal triviale al sacrilego fino al colto e all’intellettuale) vengono mescolati insieme in strabordanti dialoghi (una mera sostituzione dell’autentico “dialogare”) che, nonostante la loro complessità, appaiono inversamente proporzionali al rigore delle scene rappresentate. Un “calderone” di sentimenti ed emozioni umane che si cela dietro la maschera del nichilismo e dell’eccessivo didascalismo; magari i mondi immaginati (forse frutto dell’inconscio stesso e lontani da ogni verosimiglianza) da Wes Anderson sono proprio come i suoi personaggi vedono la realtà (forse é come il regista stesso immagina che sia). Generi, personaggi e scenografie non sono esattamente quello che sembrano. Questo farebbe di Anderson un espressionista metafisico più che un surrealista. Il suo stile non andrebbe visto come una ripetizione, ma come una continua dichiarazione di poetica. Perfino dietro le rocambolesche imprese dell’ambiguo Zsa Zsa Korda (ancora una volta, una manipolazione dei nomi della diva Gabor e del produttore Alexander), ambiguo magnate alla Orson Welles o alla Howard Hughes che incontra le comiche del muto, si cela lo stesso vuoto esistenziale di altri personaggi tipici dell’autore texano; lo spazio stesso in cui sono inseriti si fa antitesi di un sentimento, metafora di una vacuità dell’animo che aspetta solo di essere riempita. Forse é a questo che punta il regista; dietro a qualunque schema si nasconde un desiderio, la ricerca del contatto e dell’empatia, lontano da ogni idea di lusso, raffinatezza o astrazione. Un ritorno all’umiltà rinunciando alla megalomania. Alla fine si torna al cuore dietro all’immagine contraddittoria e palesemente ingannevole, la purezza e la semplicità del gesto dietro alla rigida tecnica.
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