Regia di Brady Corbet vedi scheda film
Le sinistre ombre della guerra, portano dubbi ed enigmi sul viaggio transoceanico intrapreso da centinaia di sfollati. La luce sul ponte della nave, disvela l’agognato approdo, la libertà cercata, il sogno di una vita migliore. La statua della libertà racchiude l’intera visione americana, sulle opportunità concesse a tutti; ma l’obiettivo della macchina da presa di Corbet la presenta al rovescio, gettando una sinistra immagine, in merito alla propaganda di tale opera architettonica.
“The Brutalist” di Brady Corbet (2024), destruttura la proiezione egalitaria che gli Stati Uniti danno si sé al mondo, attraverso l’architettura degli edifici. Il formato “VistaVision” adoperato, fornisce maggior definizione e dettaglio, senza deformare i palazzi tramite l’utilizzo del grandangolo. Il formato maggiorato ed orizzontale, dispiega la propria potenza nelle panoramiche delle opere architettoniche, valorizzandone l’impatto visivo ed il conseguente significato socio-economico di cui si fanno portatori. Eppure “The Brutalist” al dispetto della sue abnorme durata (215 minuti), non cerca una costruzione filmica attraverso i campi lunghi esterni, quanto semmai nel ripiego dell’individuo in sé.
Corbet si rifugia negli spazi interni. Stretti ed oscuri. All’insegna di un’anti-epica immanente, che destruttura la narrativa tutta americana del viaggio a tappe crescenti verso il sogno. Così come lo stile architettonico del brutalismo, rifulge da altri materiali a favore del solo cemento, per esaltare la forza scenica dell’edificio, Corbet elimina e raschia ogni grandezza, nel percorso dell’immigrato ungherese ebreo Alex Toth (Adrien Brody) verso la (nuova) fama, a favore dell’autentico sentire della nazione americana.
La luce della propaganda cela il buio degli intenti. Il complesso edificio, commissionato dal ricco mecenate Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), si staglia imponente sulla collina a piena vista da parte comunità di Doylestown. Il “messia” di cemento, riunisce in sé la memoria della defunta moglie con l’intento di farne un luogo da poter far usufruire dall’intera cittadinanza.
Pubblico e privato s’intrecciano nei loro interessi, solo per rivelare la vera meta finale del progetto; la manifestazione del potere.
Gli Stati Uniti sono la nazione più ricca del mondo. Ma dopo la seconda guerra mondiale, hanno voluto esportare lo stile di vita capitalista, in più stati del mondo possibili. Nulla di più efficace nel farlo, che attraverso la propaganda, derivata da interi complessi mastodontici, sorti dove prima c’era il nulla. Questo titanismo attrae continua nuova forza lavoro, con la speranza (illusoria) di poter essere partecipi di questa piccola parte di grandezza.
The Brutalist (2024): Adrien Brody, Stacy Martin
Toth si scontra amaramente con la brutale realtà americana, dietro la facciata accogliente ed inclusiva mostrata nei cinegiornali. Privo di un posto nel mondo vaga senza fissa dimora. Prima dorme nello sgabuzzino del cugino immigrato anni addietro, poi ospite in una stanza della grande dimora di Van Burren ed infine in coabitazione con la moglie Erzebeth (Felicity Jones) e sua nipote Zsofia (Raffey Cassidy) a New York. Il cosmopolitismo viene nei fatti negato dalla nazione americana, letteralmente edificata sul sangue altrui. L’integrazione pubblicizzata diviene assimilazione forzata spersonalizzante. Via la fede ebraica e rinuncia al nome originale, ottenendo comunque come risultato l'essere a malapena tollerati. Vagabondo e perennemente in moto, Alex Toth progetta edifici altrui, senza mai averne di propri, al pari degli Ebrei; un popolo senza stato per molti millenni. Fino al 1948 con la nascita di Israele.
Il mondo è divenuto un posto violento. Alex Toth è un architetto geniale con cui “intrattenere conversazioni stimolanti” nella logica dell’annoiato Van Burren, ma alla fine rimane sempre un “ebreo”; anche per quegli stessi americani, che altro non sono che discendenti degli immigrati europei precedenti (lo stesso personaggio miliardario in quel “Van” aristocratico, cela chiari antenati olandesi o tedeschi). Pronti a riversare le loro pulsioni xenofobe sull’altro (“gli italiani sono gli ispanici d’Europa”), sino ad arrivare allo stupro, che depriva la vittima della sua più profonda intimità.
Il tortuoso viaggio accidentato e doloroso, mira a far emergere l’oscura nascita e sviluppo di una nazione, mescolando l’astrazione stilistica di “The Master” (2012), con la visceralità del “Petroliere” (2007); entrambi di Paul Thomas Anderson, fautore dell’anti-elegia americana.
Il buio rivela assai più di ogni facciata illuminata. Ma la superficie levigata caratteristica del “marmo di Carrara”, tramite la sua bianca lucentezza, mostra la destinazione possibile secondo le inclinazioni personali di Van Burren ed Alex Toth.
Il divenire tutt’uno con il proprio mausoleo per il primo e il fare dell’elaborazione del dolore la propria ragione artistica per il secondo, che troverà la propria terra promessa nella città più bella del mondo, edificata su una laguna. Un luogo inospitale e pericoloso, come il deserto arido e privo di vita, su cui è stata costruita la nazione di Israele.
Corbet con il basso budget di 10 milioni, gira un capolavoro sfuggente e dalla difficile comprensione. Una probabile cattedrale nel deserto per il pubblico incolto, che vedrà in essa un cinema che ripiegato in sé stesso. Ma per chi sarà capace di affrontare l’opera concepita da uno sguardo geniale, superato il tempo presente, vedrà come l’arte superiore, risulti capace di sconfiggere ogni orrore, traversia e financo la logica del capitale.
The Brutalist (2024): Guy Pearce
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