Regia di Greta Gerwig vedi scheda film
Blockbuster imperfetto e godibile, "Barbie"gioca con le provocazioni riuscendo nell'intento di farsi ricordare ma senza farsi comprendere.
(Perché dovremmo e non dovremmo vedere un film come questo con le nostre figlie/i/*)
Potrebbe sembrare inopportuno scrivere quando il film Barbie, un caso mainstream atteso da almeno un lustro, sembra ormai aver assunto l’informe sembianza di un piede rimasticato dell’omonima bambola. Un po’ come nella versione, mostrata nel film suddetto, della Barbie stramba con pittoresco e nostalgico look creativo, simbolo dell’interazione tra noi e i nostri giochi.
In un’epoca in cui il ludus pare aver smarrito la sua essenza, abbarbicandosi in concept standardizzati e normati, per allontanarsi dal giusto e sferzante abisso di senso che sviluppava la psiche infantile, il primo invito del film Barbie sembra essere questo: la citazione, pacchiana e quanto mai opportuna di 2001, Odissea nello spazio ci obbliga alla visione orrorifica di fragili e inquietanti bambole martoriate da bambine invasate. Con non troppo sottile ironia Greta Gerwig innalza il totem della splendida bionda in costume a righe, che sorride in modo sinistro e “manipola” le giovani utenti facendole deviare dalla norma che le vorrebbe puericultrici accudenti per desiderare “qualcos’altro”.
È la prima provocazione tra le tante di questo strano oggetto filmico, rivolta non tanto al cinefilo medio di entrambi i sessi quanto ai filosofi del regresso rossobruno che imperversano da qualche anno su internet e altrove, teorizzando la connessione demoniaca tra capitalismo ed emancipazione femminile, tra allontanamento dalla presunta natura che obbliga alla divergenza tra sessi e generi e manipolazione mediatica. A smentirli ci sarebbero testi piuttosto autorevoli ma forse troppo faticosi e lontani.
Le bambine scoprono dunque la bambola con cui identificarsi, attraverso una buona dose di marketing imponente, e quella creazione dell’imprenditrice Barbara Walters si rivelerà insidiosa come il suo sorriso esagerato e, allo stesso tempo, liberatoria.
L’estetica sognante e stucchevole di Barbieland, non luogo delle meraviglie, si avvale dello studio e dell’applicazione di costumisti, architetti e designer che rendono vivo l’inanimato della plastica rosa e delle tonalità giustapposte e mal amalgamate, quel famoso effetto “shocking” rievocato dall’utilizzo consapevole del camp e del kitsch in campo cinematografico.
A Barbieland quasi tutte le ragazze sono Barbie, sebbene mostrino nell’abbigliamento e nelle fattezze quella diversità introdotta dagli anni ’10 e dalle “Fashionistas”, mescolata però ad un tocco nostalgico nel colore, negli arredi e in parte negli abiti, con il dominio assoluto del rosa e trovate ingenue e quasi disturbanti come il mare solido e immobile. La protagonista stessa, pur ricalcando abbastanza fedelmente l’idea di bionda ipervitaminica ed energica già cara alla visione anni ’80, non ne rappresenta i tratti più estremi come i seni enormi di quell’epoca e il bacino irrealistico, per alcuni altra grave mancanza, ma presenta, piuttosto, una fisicità armoniosa e atletica molto vicina alle bambole della nostra epoca, nelle quali possiamo notare un lieve e gradevole accenno muscolare nonché piedi ben poggiati sul suolo, elemento inizialmente assente – e determinante – nella Barbie Margot/Robbie.
Ogni personaggio femminile ha un mestiere, o quasi. I Ken, controparte maschile, hanno mestieri impalpabili e misteriosi e sgomitano per essere notati dalle femmine della specie. Sono deliziosamente stupidi e inetti, a tratti pervasi da una mascolinità stolta e gallinacea, a tratti infantili e forse femminei. Tutto questo, palesemente, viene descritto come un’iperbole ridicola e insieme accettabile nel mondo che è, di fatto, un terreno di gioco: si immagina Barbieland come il rifugio immaginario delle fantasie di una ex bambina di 7/8 anni, probabilmente abituata a vivere in un mondo reale in cui i ruoli sociali erano ben netti e ribaltati rispetto a Barbieland. Le Barbie non sono mai descritte come buone, amorevoli, e forse neppure come particolarmente intelligenti: sono dotate, brillanti e di successo, “perché sì” e non per strane motivazioni filosofiche. Scopriremo molto più tardi quali e quante bambine, nello specifico, hanno immaginato e plasmato quel mondo.
È un piccolo universo che basta a se stesso e che si regge sulla sperimentazione sbilanciata e i voli pindarici della psiche infantile. In tal senso colpisce la perizia nel rappresentare tutte le stranezze e i sovvertimenti delle leggi fisiche che regolano l’ambiente: i movimenti robotici, il prostrarsi a terra in pose innaturali e a faccia in giù, il planare da un piano all’altro della propria lussuosa villa senza bisogno di scale o ascensori.
Alcuni hanno parlato della regia “invisibile” di Gerwig, tratto distintivo della regista che si accontenta, come alcuni colleghi, di presentarci la scena nella sua interezza ed evidenza, con i consueti campo/controcampo e le panoramiche più ampie sulla scenografia e sullo scenario inusuale, ricco di dettagli, che ci troviamo di fronte. Fanno eccezione forse i momenti coreografici di Barbieland e la costruzione delle sequenze musicali, di cui Gosling/Ken e tutto l’universo maschile che lo circonda sono protagonisti.
È forse però dopo il gustoso momento videoclipparo del “passaggio tra i due mondi”, quando una Barbie spaventata scopre che nella sua auto verso il mondo reale c’è quel Ken che già quotidianamente l’assilla, che la regia i fa effettivamente più piatta e servizievole.
La transizione quasi bidimensionale che vede la coppia barcamenarsi tra improbabili mezzi di trasporto giunge finalmente in un mondo che ci somiglia: grigio e pervaso dai colori neutri, dalle sfumature, dallo stereotipato "calore" losangelino.
La ridicola caratterizzazione del capo della Mattel e dei suoi sottoposti (di nome e di fatto) è tutto sommato un elemento funzionale piuttosto riuscito. Il mondo che vediamo è filtrato attraverso lo sguardo rosato, che lentamente si desatura, della protagonista. Alcuni dettagli apparentemente stridenti, come le lacrime e il “sei bellissima” di Barbie di fronte al volto di un’anziana, rinsaldano la visione statica e abbagliante di una figura aliena, incorruttibile nella sua plastificazione – sebbene sia proprio la scoperta di una bizzarra corruzione del corpo e della mente il motivo del viaggio – che incanta e si incanta perdendosi nel suo stupore infantile.
La purezza di Barbie risalta anche, a dispetto di chi storce il naso per la scelta di un’attrice trentenne (e di un comprimario quarantenne), grazie alle sue sembianze pienamente adulte, giocando per contrasto in maniera molto più incisiva rispetto all’ipotetico ingaggio di una “Barbie” tardoadolescente (alcune fonti ci dicono che la bambola è stata pensata per rappresentare una ragazza di 19 anni, ma parliamo pur sempre di una presunta scelta operata 65 anni fa).
Il film è stato accusato di essere inutilmente verboso, e in un certo senso la parte finale di solita essere una sequenza sbilanciata di azioni, legate in una sorta di rocambolesco action movie in tono minore. La narrazione ritrova però rapidamente il suo filo conduttore attraverso il ricorso alla parola. I “discorsi” di Barbie aprono altrettanti portali, vie di congiunzione tra un mondo e l’altro, tra una fase evolutiva della protagonista e una risposta dal mondo esterno perentoria, dovuta.
L’ambiente in cui incontriamo Barbie Stramba è un luogo di inizio e allo stesso tempo di ricongiunzione, in cui la bambola martoriata dalle mani infantili si riappropria del potere e diventa fattucchiera di un piccolo mondo fatto di quadri spezzettati, di colori violenti, di identità decostruite senza mai essere state unitarie. Qui la protagonista dovrà accettare, suo malgrado, di intraprendere un viaggio frustrante e faticoso rispondendo alla formula di Stramba.
Più tardi, nel mondo reale, la scatola a grandezza naturale, oggi adottata come postazione fotografica di molte feste di compleanno, è un monitor orrorifico da cui Barbie fuggirà in modo istintivo, per oi approdare al mondo degli umani. Qui farà la conoscenza dell’ex ragazzina che giocava con lei, una lavoratrice della Mattel insoddisfatta ed insicura, e di sua figlia, adolescente irritante e irritabile in preventivo conflitto con sua madre e con il mondo.
Il discorso della giovane Sasha, pronunciato in modo mirato, è un momento di verità inserito in una parabola favolistica e standardizzata, almeno in parte. La ragazza investe con le sue parole riottose, aggressive e tipicamente adolescenziali la bambola fatta (quasi) donna, accusandola di quanto il gioco Barbie abbia contribuito a imprigionare le donne con aspettative astringenti sul loro aspetto e sulla loro performatività in ottica iper capitalistica. C’è ovviamente del vero nel monologo, che alcuni hanno persino individuato come punto più alto del film dal quale avrebbe dovuto svilupparsi una critica al modello Barbie. La destinataria dell’invettiva soffre, essendo, pur nella sua ingenuità di bambola, un essere onnisciente e consapevole della sua storia e della sua presenza nel mondo. Non bisogna però dimenticare che si tratta delle parole di una giovane arrabbiata, non onnisciente, che imposta la sua visione in modo dicotomico e assolutista. La storia della bambola Barbie è fatta di errori, di oscuri riferimenti all’oggettistica per adulti ma anche delle sincere intenzioni di un’ imprenditrice sul ruolo di rottura che la sua creazione avrebbe dovuto avere, ruolo esplicitato più aventi. Barbie impara qualcosa da questo incontro, e riflette sulle sue gabbie e sugli stereotipi per tracciare il cammino verso la sua particolarissima umanità, che trascende la produzione in serie e viaggia dal molteplice al particolare.
I personaggi di Sasha e Gloria, pur essendo strumenti importanti per il percorso della protagonista e portavoce delle spettatrici umane, compiono entrambe un cammino di reciproco avvicinamento e di cambiamento ma le loro figure sembrano, tutto sommato, restare sullo sfondo e risultare meno solide rispetto ai personaggi del mondo alternativo. In tal senso si è parlato molto del monologo di Gloria, che elenca le caratteristiche contraddittorie e paradossali che la società impone alle donne. Parole semplici ma spiazzanti nella loro perentoria verità, utilizzate come una sorta di lunghissima, e in parte forzata, “formula magica” per spezzare l’incantesimo che sembra soggiogare le Barbie di Barbie Land.
Per risalire alla natura dell”incantamento” è necessario accennare alla sottotrama di Ken, alla sua lunga e complessa evoluzione, ai suoi litigiosi compagni e alter ego. Come in una sorta di riadattamento del futuro alternativo “distopico” di Back to the future Il personaggio interpretato da Ryan Gosling apprende nel mondo reale le regole di un “mondo per uomini”, e con il suo stupore e le sue espressione corrucciate ricrea con estrema facilità una società simil- patriarcale in Barbie Land, dove il candore si mescola ad una stolta brutalità e ad una ritrovata, quanto fragile, solidarietà tra bambolotti. Le ridicole schermaglie, sapientemente coreografare e corredate di finti cavalli, trasformano lo scenario rosa pastello virando al marrone rapidamente, proprio perché le leggi sono sovvertibili senza troppe spiegazioni in una terra di giocattoli. Con altrettanta facilità le Barbie assoggettate e spogliate dei loro mestieri si risvegliano, anche se con un aiuto esterno. Rivoluzione e controrivoluzione si corteggiano e si annullano nell’arretramento progressivo dell’universo dualistico di Barbie Land, il terreno di gioco che viene progressivamente abbandonato da madre e figlia, giocatrici, o forse dalle donne e dalla loro storia in genere. Sì arriva, scalciando, a un finale interpretato come una banalizzazione o un epilogo moraleggiante, ma che in fondo è l’unico finale possibile.
Attraverso l’ultimo portale, una stanzetta ammuffita e leziosamente arredata, Barbie stereotipo comprenderà di voler sfidare l’ultimo tabù: vuole essere viva, a costo di essere mortale, e abbandonare la sua soffocante condizione di “idea” per diventare agente, ideatrice, creatrice. Comunica questa sua decisione alla figura fantasmatica della sua vera creatrice in un gioco, forse scontato ma impattante, di effetti fluo e di velature dell'immagine atte a restituire a chi guarda un sapore di eternità, di "non luogo" privato dal tempo.
Barbie si libera dal gioco e lascia le sue compagne e i Ken in un mondo in cui gli equilibri non sono ancora ideali per tutti, così come accade nel mondo reale, a parti inverse, ma dove però ogni giocattolo potrà provare a cercare la sua identità, dove Ken potrà “essere” senza affiancare la sua Barbie.
L’ultima scena la vede in un palazzo asettico che si immagina essere il luogo del compimento, della sua realizzazione umana e professionale ma che invece è il luogo dove, in quanto umana, la donna si riscopre in quanto essere sessuato. Di quella attribuzione sessuale e di genere Barbie era sempre stata consapevole, nonostante la sua frivolezza d’ordinanza, pur sapendo però, come comicamente ribadito in più punti, di non possedere fisicamente gli organi sessuali di una donna vera. Un finale che offende (qualcuno) nella sua prosaicità, nel suo richiamo alla banalità dell’esperienza umana che però la candida protagonista invita ad accogliere, con seducente e sfrontata semplicità. Offende a tal punto da fare immaginare altri scenari, possibili ma ridondanti, come l’ipotesi di una gravidanza.
Il film di Gerwig, semplice, didascalico e incompreso, potrebbe così trasformarsi in un’esperienza di condivisione in cui le spettatrici e gli spettatori più giovani, possibilmente almeno nella preadolescenza, possano essere guidati nella scoperta di riferimenti al passato, curiosi e interessanti ma non sempre essenziali, attraverso il dialogo e il confronto con le figure adulte. L’incontro tra Barbie e Ruth, Ancor più della ritrovata complicità tra Gloria e Sasha, è un invito a fare pace con la figura materna e a costruire un ponte tra generazioni. Senza volere o poter essere oggetto “esemplare” di cinematografia il film potrebbe rivelarsi un piccolo tassello nell’educazione alla visione: per riconoscere etichette, didascalie, uso di stereotipi e fare pace, eventualmente, con essi, per acclimatare lo sguardo sulle tonalità fucsia stordenti e necessarie, ridere alle battute paradossali di personaggi simbolici e acutamente veri.
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