Regia di Leonardo Di Costanzo vedi scheda film
In un carcere, sotto particolari ed irrepetibili condizioni, viene organizzato un regime di vita diverso, più umano e meno attaccato ai regolamenti, perché è vero che "summum ius, summa iniuria".
Devo dire che mi ha convinto questo esempio di cinema italiano contemporaneo, cosa che non mi accade di frequente.
Benché all'inizio non si capisca bene di cosa si tratta (un gruppo di uomini in gita in montagna, ricordi d'infanzia, luogo e situazione misteriosa...), ci troviamo ben presto calati nel microcosmo della prigione, dove inizia subito un evento inusuale.
Il regista è bravo a raccontare e ad interessare lo spettatore a quanto sta accadendo, come pure a guardare con attenzione i principali personaggi. Vi sono pure alcune sequenze di tensione, come i passaggi tra la cucina e le celle, e la cena comunitaria nell'atrio. In questo caso l'elettricità nell'aria non è poca, e si teme un esplodere della situazione in ogni momento.
I personaggi sono ben definiti e credibili, compresi quelli secondari. Sono tutti detenuti molto verosimili. Toni Servillo si conferma, secondo me, come uno dei migliori attori al momento attivi, e mi dispiace solo per la sua età che avanza. È proprio un interprete che sa dare spessore ai ruoli che interpreta, e si distingue per la misura dei gesti e delle parole, che sono sempre ben calibrati e mai sopra le righe. Dall'altro lato, non è neppure mai inespressivo. Egli ci dà un ritratto convincente di una guardia che, benché cosciente del suo ruolo e dei pericoli del suo mestiere, cerca di essere umano e di non farsi schiacciare dai regolamenti e dalle procedure, che spesso schiacciano pure i detenuti. Silvio Orlando, dal canto suo, si conferma il bravo attore che conosciamo, anche se – permettetemi – in certi passaggi è un po' ingessato e statico. Bravo anche l'attore che interpreta il ragazzo.
Emerge in particolare questa aporia: se da un lato l'ordine e l'autorità sono necessari, dall'altro è necessario coniugarli col buon senso e con l'umanità. E questo si vede bene nel personaggio di Servillo: mantiene il suo ruolo, evita la familiarità e la troppa vicinanza con i prigionieri, ma pure cerca di venirgli incontro e rendere la loro permanenza meno amara. L'applicazione letterale del regolamento avrebbe portato ad una rivolta carceraria. C'è bisogno, inoltre, di una dimensione comunitaria e anche di lavoro sociale (come il cuoco). Stare tutto il giorno in una cella senza fare nulla di sicuro non fa bene alla psiche della persona e al suo recupero.
Ciò che ho apprezzato del film è che questo messaggio viene lasciato filtrare tra le pieghe del racconto, e vengono del tutto evitati i toni didascalici e dimostrativi. L'opera evita altresì un concetto secondo me sbagliato, ma che non di rado capita di trovare qua e là, cioè l'idea che tutti sarebbero in realtà buoni in fondo al cuore. Invece non tutti lo sono, perché c'è quello che buono non è affatto, quello che odia, quello che medita vendetta, o quello un po' sadico (anche tra le guardie), ecc.
In generale, mi pare che il film perori la causa dell'umanizzazione della vita nelle carceri; alle volte basta poco per fare di una permanenza insopportabile e umanamente degradante una croce non troppo pesante, e addolcita da un minimo di rapporti umani, di rispetto e di stima che possono generarsi tra detenuti, e tra questi e i secondini. L'opera è sorretta da una buona regia, sobria e precisa, da un parco di bravi attori, e da una sceneggiatura ben bilanciata e strutturata.
Mi è piaciuto anche per la mia convinzione che in carcere ci dovrebbe stare solo chi è pericoloso, mentre gli altri dovrebbero essere condannati a svolgere attività sociali e di riparazione, meglio se di natura simile e contraria al male commesso.
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