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Che fine ha fatto Baby Jane?

Regia di Robert Aldrich vedi scheda film

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La recensione su Che fine ha fatto Baby Jane?

di Letiv88
8 stelle

Un cult classico che non perde potenza: tensione costante, due interpretazioni iconiche e un mix di crudeltà e fragilità che resta impresso.

Jane Hudson cantava da bambina “I’ve Written a Letter to Daddy”. Quella melodia apparentemente innocente resta impressa e, da adulta, diventa ossessione, follia e crudeltà. Che fine ha fatto Baby Jane? (1962), diretto da Robert Aldrich, ti afferra subito: Blanche è prigioniera in casa, mentre Jane trasforma rancore e invidia in crudeltà costante. Un cult movie che ha ridefinito il thriller psicologico e le dinamiche di tensione tra due icone del cinema classico.

Ex bambina prodigio e ormai alcolizzata, Jane (Bette Davis) è mentalmente instabile e soggetta a improvvisi atti di violenza. Sua sorella Blanche (Joan Crawford), diva del cinema anni ’30, è confinata su una sedia a rotelle dopo un incidente. Jane la rinchiude in casa e la sottopone a crudeltà psicologiche, scherzi sadici e punizioni continue. La tensione cresce scena dopo scena, fino a un confronto finale drammatico e scioccante.

Robert Aldrich trasforma la casa delle sorelle in un vero strumento narrativo: corridoi, stanze e oggetti riflettono rancore, ossessione e frustrazione. Ogni spazio domestico diventa simbolo della prigionia di Blanche e del controllo ossessivo di Jane.

Il bianco e nero è una scelta stilistica precisa: contrasti di luce e ombra accentuano claustrofobia e inquietudine. Aldrich privilegia primi piani, specchi e riflessi per mostrare fragilità e follia dei personaggi, senza ricorrere a effetti spettacolari. Oggetti chiave – la sedia a rotelle di Blanche, il piano di Jane – diventano strumenti narrativi concreti, simboli di dominio psicologico e rancore. Brevi spezzoni dei vecchi film di Blanche intrecciano passato e presente, amplificando dramma e profondità emotiva.

Scene di tensione quotidiana, come i momenti in cui Blanche tenta di comunicare o muoversi da sola, mostrano come Aldrich costruisca suspense con ritmo e montaggio, facendo percepire ogni attimo di vulnerabilità senza ricorrere a colpi di scena artificiosi.

Lukas Heller adatta il romanzo What Ever Happened to Baby Jane? di Henry Farrell concentrandosi sul conflitto tra Jane e Blanche. I dialoghi sono essenziali e incisivi, ogni scena mette in luce gelosia, rancore e follia senza artifici narrativi. La sceneggiatura mantiene un ritmo serrato, alternando momenti di apparente calma a episodi di tensione intensa, senza mai interrompere il flusso della vicenda con flashback tradizionali.

Il passato delle protagoniste resta sempre presente attraverso piccoli riferimenti alla loro infanzia e carriera, senza mai diventare invasivo. Ogni parola e gesto quotidiano assume significato simbolico, mostrando potere, frustrazione e dinamiche di dominio tra le sorelle. Heller esplora in profondità l’evoluzione psicologica dei personaggi, rendendo credibile la discesa nella follia e creando suspense costante. Questo approccio ha contribuito a definire il sottogenere ‘hag horror’, un thriller psicologico centrato su donne anziane e ossessione, influenzando opere successive.

Bette Davis in Jane è intensa e inquietante, capace di essere crudele e fragile allo stesso tempo. Ogni sua espressione trasmette ossessione e follia, rendendo il personaggio memorabile. Joan Crawford in Blanche dà corpo a dignità e vulnerabilità: la sua paura e frustrazione risultano tangibili, e il contrasto con Jane aumenta la tensione.

Victor Buono, nel ruolo del pianista Edwin Flagg, aggiunge un tocco di ironia nera senza mai ridurre la suspense, diventando un elemento destabilizzante nella dinamica tra le sorelle. La chimica tra Davis e Crawford riflette anche la reale rivalità sul set, aumentando autenticità e impatto emotivo delle scene.

Il film ottenne grande successo di critica e pubblico, venendo presentato in concorso al Festival di Cannes del 1963. Il film ricevette cinque candidature agli Oscar, aggiudicandosi il premio per i migliori costumi nella categoria “bianco e nero”, firmati da Norma Koch. Nel tempo è diventato un punto di riferimento: nel 2001 fu inserito nella lista AFI’s 100 Years… 100 Thrills dall’American Film Institute, posizionandosi al 63° posto, mentre nel 2003 “Baby Jane Hudson” fu riconosciuta come il 44º miglior cattivo della lista AFI’s 100 Years… 100 Heroes and Villains. Nel 2021 la pellicola è stata selezionata per la conservazione nel National Film Registry per il suo valore culturale, storico ed estetico.

La parrucca che Bette Davis indossa nel ruolo di Jane Hudson era già stata usata da Joan Crawford in Ragazze che sognano (1930). Il trucco di Jane, curato nei minimi dettagli, esalta il volto grottesco del personaggio ed è frutto della diretta partecipazione di Davis nella creazione del look decadente. Nelle scene in cui Jane imita Blanche, si sente davvero la voce di Crawford, creando un curioso effetto che lega i due personaggi alle attrici che li interpretano.

Secondo quanto racconta Davis nel suo libro This N’ That, la produzione aveva previsto il film a colori, ma lei si oppose fermamente, imponendo il bianco e nero.

Il racconto originale di Farrell si ispira alla vicenda reale di Blanche Monnier, aggiungendo un livello di inquietante realtà al conflitto tra le sorelle. Il film ha lasciato un segno nella cultura pop: nel 2006 Christina Aguilera adottò per un periodo lo pseudonimo “Baby Jane”, e la serie Feud – Bette and Joan racconta la celebre rivalità tra Davis e Crawford durante le riprese. Davis tentò inoltre di coinvolgere Alfred Hitchcock per la regia, senza successo, perché il regista era impegnato con Psyco (1960) e Gli uccelli (1963).

Che fine ha fatto Baby Jane? è un thriller psicologico che ti prende e non ti lascia. Mostra il rancore, l’ossessione e la crudeltà che possono covare sotto lo stesso tetto, tra due sorelle intrappolate nel passato. La regia di Aldrich e la sceneggiatura essenziale trasformano la casa in un campo di battaglia emotivo, mentre Davis e Crawford incarnano ogni sfumatura di follia, fragilità e dominio. Non è solo una storia di pazzia domestica: è uno studio spietato sulla memoria del passato e sulle ferite invisibili che restano. Una pellicola che ancora oggi inquieta, affascina e impone rispetto.

 

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