Regia di Jerry Schatzberg vedi scheda film

“Street Smart” non può essere considerato tra i risultati migliori di Jerry Schatzberg, uno dei nomi illustri della “New Hollywood” (“Scarecrow”, “The Panic in Needle Park”); ciò nonostante resta un curioso impasto di dramma urbano e satira della brama mercenaria degli anni Ottanta. Una riflessione sul prezzo della menzogna, spacciata come “derrata editoriale”. Jonathan Fisher (Christopher Reeve), un reporter costretto, per gioco forza, a consegnare un articolo entro una scadenza impossibile, pressato dal suo direttore, promette un articolo sulla giornata tipo di un pappone locale, ma cascando nel tritello delle sue stesse ambizioni, produce l’intero quadro dal nulla. Peccato che la finzione si confonda presto con la realtà: la polizia crede che il pezzo riguardi un vero “pimp” (Morgan Freeman), e induce Fisher a difendersi da una pericolosa catena di eventi. Fast Black, figura insieme magnetica e minacciosa, riceve da Freeman un’energia bruciante: ogni gesto sciorina carisma e follia. È un’incarnazione engagée, consapevole. Terrificante nel modus operandi. Reeve ha una rigidità che finisce nel diventare funzionale: raffigura un uomo sempre più eroso nelle sue sicurezze, intrappolato in un’impasse di colpe e bugie. Kathy Baker (la prostituta Punchy) trasmette una dolce tetraggine dando corpo alla solitudine di un mondo senza pietà. Mimi Rogers, nella parte della fidanzata di Jonathan, Alison, lascia emergere un fascino discreto, pur rimanendo sullo sfondo della vicenda. Schatzberg si cimenta in un realismo quasi cronachistico, delineando il volto oscuro della città. I vicoli, i motel, le strade popolate da lestofanti e disperati: tutto vibra di un’autenticità ruvida, vissuta. Una recrudescenza cinematografica del marcio morale sotto la pelle dell’America urbana. Gli arrangiamenti al synth di Robert Irving III accentuano questa tensione, scolpendo un tessuto sonoro nervoso e pulsante (nella soundtrack c’è anche Life Is Something Special, remixata da Larry Levan, DJ dello storico Paradise Garage). La regia oscilla fra sequenze tese e avvincenti ad altre in cui si avverte una certa fiacca, causata dalla scrittura “da bigino”; le coincidenze si moltiplicano, e la logica viene defalcata fino a sfiorare il paradosso. Nondimeno, proprio quando il plot dà l’impressione di implodere nel travisamento narrativo, un equilibrio sottile ne impedisce il collasso. E in fondo, nella sua imperfezione, la pellicola, inciampando talvolta nei propri trabocchetti, conserva un fascino sporco e autentico.
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