Regia di Stanley Kramer vedi scheda film
Film solido come una roccia ad emblema della solidità che dovrebbe caratterizzare la natura umana prima e la giustizia espressa poi…dovrebbe, appunto. Uno di quei titoli che il cinema offre per non dimenticare…
Prodotto e diretto da Stanley Kramer, molto attento a portare sul grande schermo tematiche che affondano le radici in complesse dinamiche sociali, “Vincitori e Vinti” (Judgement at Nuremberg) viene rilasciato nelle sale nel 1961, ovvero a soli 13 anni di distanza dagli eventi (veri!) portati in scena.
È solo con il passare dei decenni, con il decantare della storia, dei ricordi e dei dolori, con l’affiorare delle cicatrici, testimoni visibili o interiori di un principio di processo di cauterizzazione delle ferite fisiche ed emotive versate con un sistematico sadismo (che probabilmente non ha precedenti nella storia umana) sulla pelle e nell’animo dei sopravvissuti e dell’umanità tutta, che l’argomento Olocausto, con i suoi orrori e crimini, da inenarrabile diventa materia di studio, discussione, ricerca, approfondimento, inchiesta.
Forse è stato giusto così, anche la memoria collettiva ha avuto bisogno del suo tempo per elaborare, realizzare l’accaduto una volta smaltiti i postumi di tale sbornia di malignità generale, mondiale, causata così come subita.
Produrre una pellicola di tale portata e spessore a così pochi anni dall’accaduto è segno di enorme sensibilità e lucida percezione del fondamentale contributo da fornire alla società (anche attraverso il cinema) affinché non si dimentichi, affinché non si ripeti!
“Vincitori e vinti” porta la firma, in qualità di sceneggiatore, di Abby Mann, il quale scrisse sullo stesso soggetto un omonimo romanzo. Mann è molto abile nel non farsi prendere da facili sentimentalismi ed isterismi, molla e tiene il freno affinché la bilancia del giudizio nell’animo dello spettatore non sia alterata da un’eccessivo pathos e argomenti da partito preso. Gli uomini giudicati sono uomini innanzitutto, con i loro dubbi e rimorsi, giustificazioni e ideali.
La particolarità di questo titolo sta nel fatto che ricostruisce il terzo dei processi per crimini di guerra indetti dagli Stati Uniti d’America a Norimberga; in questo procedimento vengono processati quattro giudici, uomini formatisi ben prima dell’ascesa nazista, tutori integerrimi della legge fintanto che il terrore o il fascino aberrante di un Terzo Reich non fa breccia nella loro scorza morale.
L’utilizzo di nomi fittizi e la gestione un po’ caotica dei dialoghi sottoposti a traduzione simultanea durante il processo sono i perdonabili nei della pellicola; piuttosto allo spettatore viene offerta la possibilità di toccare con mano una realtà spiazzante ma quanto mai concreta: uomini irreprensibili, di forte levatura morale, studiosi, difensori e in alcuni casi autori di leggi a tutela del diritto, sono stati in grado di trasformare se stessi in strumenti di morte, con le loro sentenze, le loro firme, il loro assoggettamento ad un palese atto di sopruso non solo delle libertà, ma della dignità; uomini in grado di soffocare o snaturare nel peggiore dei casi la propria coscienza per darla in pasto a un dittatore folle, coscienze azzittite dalla scusante che un giudice è chiamato a servire e applicare la legge emanata, non la giustizia.
Giudici che hanno smesso di essere uomini, perché un uomo non potrà mai firmare una sentenza che obbliga un uomo ad essere castrato per un presunto ritardo cognitivo o essere soppresso per la propria appartenenza ad un particolare gruppo etnico.
Il cast è notevole: in ruoli minori appaiono attrici del calibro di Judy Garland e Marlene Dietrich; Maximilian Shell, premiato con l’Oscar, interpreta l’avvocato a sostegno della difesa dei quattro imputati (un’interpretazione un tantino sopra le righe in realtà), un giovane legale scioccato, deluso e smarrito tanto quanto la popolazione tedesca, ma pronto ad offrire tutta la sua professionalità in nome della tutela dei diritti dei suoi assistiti; Montgomery Clift, candidato all’Oscar, interpreta uno dei testimoni del processo (vittima inerme di quella “giustizia” perpetrata da quei “giudici”) ed è capace di delineare chiaramente il suo personaggio dalla personalità complessa, capace di offrire la resa di tutti quei sentimenti espressi e repressi di un uomo reciso nel corpo e nell’anima; i due personaggi cardine sono interpretati da Spencer Tracy (nei panni del giudice statunitense chiamato a presiedere il tribunale) e da Burt Luncaster, il giudice/imputato più in vista in quanto stimato statista e tutore dei diritti costituzionali.
Il personaggio di Luncaster è quello che subisce l’evoluzione più evidente, quello di Tracy mantiene la barra dritta, l’ago della bilancia ben equilibrato, un uomo e un giudice tutto d’un pezzo, non impressionabile o umorale, ma cauto, imparziale e concreto (talmente ideale da sembrare un po’ surreale, mai idealista comunque).
Il personaggio di Spencer Tracy si eleva nel finale non tanto per il giudizio espresso in tribunale, ma una volta tolta la toga e indossati i panni del comune cittadino ed essere umano; in quel preciso momento, durante la sua ultima conversazione con lo stimato statista ormai pentito ma irrimediabilmente deviato, impersona lo spettatore ed emette la sua dura sentenza.
A dimostrazione del valore della pellicola si aggiunge un ulteriore elemento: si accenna ai primi soffi del vento della guerra fredda già durante quei processi, e l’ingerenza americana per difendere i suoi interessi non viene legittimata, piuttosto condannata e stigmatizzata come monito affinché la giustizia non si pieghi anche stavolta alla volontà di un governo.
Imparata la lezione? L’ingerenza ha avuto il suo effetto e quegli interessi sono stati innalzati al di sopra della giustizia: alla data di uscita del film, di quei giudici tedeschi condannati in quel processo a scontare l’ergastolo, in carcere non vi era rimasto nessuno.
Emblematico!
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