Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film
Il bandito delle undici
Per gli ammiratori di Godard, fra cui volentieri mi inserisco, “Pierrot le fou” è certamente uno dei suoi film più grandi, purtroppo uscito in Italia con un titolo bruttissimo e numerosi tagli (l'edizione da vedere è assolutamente quella originale). La trama, tratta da un romanzo "nero" di Daniel White che non conosco, è volutamente incoerente e sopra le righe: conta la sperimentazione di uno stile cinematografico di estrema libertà, sia a livello formale che narrativo, con una fotografia di Raoul Coutard che ancora una volta, dopo il Disprezzo, utilizza i colori primari con straordinaria maestria (si veda la scena del party verso l'inizio, dove fra l'altro il protagonista incontra Samuel Fuller che dice che "il cinema è come un campo di battaglia: l'amore, l'odio, la violenza, l'azione; in una sola parola, l'emozione"). Moltissime le citazioni e i riferimenti alle arti visive come la pittura, alla letteratura, alla Storia del cinema e anche alla situazione politica di quegli anni: gli spettatori abituati a una narrazione tradizionale possono trovarle ridondanti e noiose, ma, con un pò di sforzo, si può seriamente apprezzare l'originalità compositiva di Godard e anche la bizzarria di questo film-caleidoscopio che ricerca costantemente l'emozione (ottime, fra le altre, le due sequenze musicali, in particolare quella giocosa nei boschi con la canzone "Ma ligne de chance", diventata nella versione italiana “E’ il mio destino”, che riprendono le atmosfere un po’ surreali di "La donna è donna"). E' un'opera ricca di intuizioni geniali e di trovate sorprendenti che può essere considerata il culmine del cinema godardiano degli anni Sessanta, dove le continue digressioni verbali che spezzano l’azione e un certo gusto del nonsense aumentano la sua originalità estetica. Bellissima e vitale Anna Karina nella parte di Marianne, un’eroina negativa da romanzo d’appendice che rimane il suo ruolo godardiano più compiuto dopo quello di Nanà in “Vivre sa vie”, dinamico ed efficacemente calato nel ruolo anche Belmondo, indimenticabile nel finale quando si fa esplodere con la dinamite in un gesto di nichilismo disperato con il volto dipinto di blu. In un certo senso “Pierrot le fou” è un film riassuntivo della sperimentazione linguistica del suo autore negli anni Sessanta, che chiude una fase nel suo cinema: in seguito, pur con altre opere significative come “Due o tre cose che so di lei”, “La cinese” e “Weekend”, il suo cinema prenderà la strada del pamphlet politicizzato, ritornando ad uno sbocco più narrativo solo negli anni Ottanta, e poi imboccando la strada del film-saggio che lo accompagnerà fino alla fine. VOTO 10/10
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