Perché fai cinema? «Perché non c’è niente che so fare altrettanto bene». Questa la lapidaria risposta data dal quarantenne Steven Spielberg a “Libération”, in occasione di uno storico numero-inchiesta del 1987. In The Fabelmans, il nuovo autobiografico film che racconta l’infanzia del suo amour fou, la risposta è più articolata e regala anche una chiave d’accesso a un immaginario intenso e battagliero. Da rampollo di famiglia ebraica, è il potere, anche ipnotico, seduttivo, diabolico, dell’immagine, la sua ossessione. E come combatterlo, visto che l’immagine, se non è superba, se non diventa idolatria, come molti kolossal Marvel, se non si gonfia tronfia nel 3D, o si sacralizza nello stile d’Autore, è anche un potente strumento illuminista di conoscenza e un’arma amica di liberazione, nel conflitto tra l’individuo e la violenza che lo circonda, dalle profondità oceaniche al firmamento e oltre.

Serge Daney notava che «nel cinema di Spielberg persiste una dimensione biblica di elezione. L’individuo emerge per il fatto che è stato scelto». Scelto dai piccoli uomini verdi come in E.T. l’extra-terrestre, dal camionista pazzo senza volto, dallo squalo bianco gigantesco, dai nazisti che emergono dagli abissi cercando Indiana Jones... Vero. Ma l’eletto biblico diventa in Spielberg il contrario dell’unto dal Signore, anzi si può dire che attraverso l’immagine, Spielberg decostruisca con foga romantica proprio quella parte di tradizione culturale ebraico-cristiana legata al Vecchio Testamento e al dio Cattivo pronto a colpire un mondo pieno di peccatori, tutti o quasi destinati alla punizione eterna dell’inferno. Quando Spielberg esordisce, alla fine degli anni 60, tutto il cinema è in rivolta contro tutto, compresa la classicità hollywoodiana e le sue falsità false, la sinistra postmoderna è addirittura pronta a sbarazzarsi del cinema professionale e industriale tout court (che in realtà ne uscirà piuttosto trasformato: dopo Lo squalo cambiò il modo di progettare un film in base ai costi e di commercializzarlo).

Bresson inquadra, di una furiosa battaglia medioevale, solo gli zoccoli dei cavalli, e Altman, di una rapina in banca, solo il prima e il dopo. Akerman riempie l’immagine di tutto quel che il fallocentrismo non vede e, con Straub-Huillet, la svuota di ogni piacere seduttivo: la “noia”, scudo a ogni seduzione, diventa oggetto d’affezione obliqua. Spielberg fa un po’ il contrario, con lo stesso scopo. Lo spazio e il movimento, non il tempo o la parola, entrano nel suo piano d’azione. Aumenta la velocità dei collegamenti, il dinamismo del gioco campo-controcampo-fuoricampo, il suo ritmo, quasi un analogon del free jazz, non spettacolarizza, memorizza veloce, come un computer. Julio Cabrera nel suo Da Aristotele a Spielberg ricorda la famosa scena in cui Indiana Jones cade da un lato della vettura in corsa e afferrandosi al semiasse inferiore rientra nella vettura dal lato opposto: ecco che i suoi film dicono-mostrano l’irruzione dell’impossibile nelle trame del quotidiano, e di un impossibile che, nonostante tutto, viene realizzato da un essere umano capace di elevarsi, perché ha pazienza e attenzione, al di sopra della propria natura.

Topolino dell’amato Disney diventa così Lincoln, l’oceanografo Hooper (Lo squalo), l’industriale Schindler, il dottor Malcolm di Jurassic Park o l’esploratore Indiana Jones di I predatori dell’Arca perduta. Film che «lascia senza fiato» (Roger Ebert). Bricolage e patchwork, procedimenti di composizione postmoderna, certo. Ma Spielberg non cita e rimonta (piuttosto nel bellissimo e demenziale 1941 - Allarme a Hollywood sbriciola stereotipi, anche patriottici, e fu un fiasco) e nei quattro Indiana Jones neppure una inquadratura viene clonata dal vecchio film a episodi Don Winslow of the Navy (1942) di Ford Beebe e Ray Taylor che Lucas voleva strappare dall’oblio, come le altre cose belle della sua infanzia, perché anche «il personale insignificante dei bambini è politico». L’orrore macabro del mondo, delle sue forze maligne, è osservato da questo duetto di esploratori eccentrici che spesso lavoreranno insieme con la lentezza, la serietà, la leggerezza del gioco infantile.

Come nell’immagine del disastro ferroviario ricostruito da Cecil B. DeMille in Il più grande spettacolo del mondo, visto da Spielberg nel 1952, quando aveva sei anni. La sequenza madre del suo cinema, quella che lo ha turbato e avvinto per sempre, è sulla decomposizione degli oggetti: il dinamismo impazzito tra le linee orizzontali delle rotaie e le verticali dei vagoni impennatisi. Action painting. Cinema astratto, appunto sul conflitto tra il bene e il male. Un nemico pesante che vuole imprigionarti e la pulsione di libertà che sprona al movimento, al dinamismo, all’imprevedibilità, all’erranza. Scontro che coinvolge la ricezione del pubblico, chiamato a partecipare appassionatamente al filosofico, concettuale match. Quello, per esempio, tra la Natura con la quale instaurare un rapporto profondo e non antropofagico (come i Beat, e prima ancora Whitman, Thoreau) e, dall’altra parte, l’ossessione capitalistica di dominarla con ogni mezzo necessario (Jurassic Park, e gli scienziati fanatici ovviamente divorati dallo squalo...). Nella storia politica e costituzionale nordamericana (affrontata direttamente in film come L’impero del sole, Il colore viola, Salvate il soldato Ryan, Lincoln, The Post, West Side Story e, indirettamente, sempre) questa dicotomia - che risale alla dichiarazione di indipendenza dall’Inghilterra - è tra un paese fondato sulla grande proprietà o, al contrario, sulla libertà e eguaglianza dei cittadini.

Cittadini che, purtroppo, dal 1783, invece di essere tutelati nel loro diritto alla felicità, devono via via contrapporre contropotere democratico a: fondamentalismo religioso, genocidio dei nativi, schiavismo, razzismo, sessismo, distruzione della piccola e media impresa, guerre imperialiste, smantellamento dello stato sociale, nazisti d’Europa e dell’Illinois e disequilibrio dei poteri. Ma tutto questo si fa caldo cinema, non gelida predica. Quel che Marcello Walter Bruno riassume così nel Dizionario dei registi del cinema mondiale (Einaudi): «Assieme a John Carpenter, Spielberg è il più grande poeta dell’orizzontalità schermica (ecco perché adora John Ford). Le sue storie cinematografiche non mettono in gioco il tempo, ma lo spazio (lo schermo come piano di scrittura-movimento)». Attivare la parte superiore o inferiore alla linea dell’orizzonte, ecco che il cielo di E.T. o gli abissi di Lo squalo ci immergono visualmente negli spazi del sovrumano o del subumano.

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