«Ho diretto Clint Eastwood assecondandone il temperamento. Tre espressioni: una col sigaro, una col cappello, una senza cappello. Del nostro primo impatto ricordo la sua indolenza, il tipico atteggiamento da uomo gatto. C’era poi questa sua andatura dinoccolata: camminava quasi dormendo». Questo noto passaggio di un’intervista a Sergio Leone descrive un uomo poco più che trentenne, allora sconosciuto alla quasi totalità del pubblico italiano. Gli uomini della prateria, la serie che in patria gli aveva dato un po’ di popolarità, sarebbe arrivata qui solo in seguito al successo della Trilogia del dollaro, nel 1966.

Clint Eastwood
Per un pugno di dollari (1964) Clint Eastwood

È all’inizio di Per un pugno di dollari che scopriamo questo californiano alto, biondiccio, dallo sguardo penetrante e dall’espressione accigliata. È un colpo di fulmine. Se due anni prima John Ford aveva diretto l’ultimo dei western classici, L’uomo che uccise Liberty Valance, nel 1964 Leone guarda al genere contemporaneamente con affetto e malizia, sporcando il mito ammantandolo di cinismo e violenza. Eastwood è un uomo di poche parole e pochi scrupoli, che anche nel fare del bene non dimentica un tornaconto personale, disilluso e consapevole che il proprio ruolo, in questo ovest fittizio ricostruito in Spagna, non è quello di farsi alfiere della civilizzazione ma solo di sopravvivere e possibilmente arricchirsi. È una rivoluzione. Gli spettatori che avevano segretamente tifato per Lancaster in Vera Cruz o per Widmark in Sfida nella città morta possono dimenticarsi i buoni un po’ legnosi alla Gary Cooper o alla Robert Taylor: niente etica del sacrificio, niente percorso di redenzione.

Clint Eastwood
Per un pugno di dollari (1964) Clint Eastwood

Leone libera Eastwood da ogni possibile passato e ogni possibile futuro: come Shane, Joe (poi “il Monco”, poi “il Biondo” - posto che sia lo stesso personaggio), non si sa da dove venga né dove vada. Ma di Shane è una versione pervertita, incrudelita. Tornato in patria, Eastwood ci mette un po’ a liberarsi dell’ombra di Leone: Gli avvoltoi hanno fame e Joe Kidd, per esempio, assomigliano a pallide imitazioni di opere di ben altro valore. Sono i western anomali di Don Siegel quelli in cui dà il meglio. In L’uomo dalla cravatta di cuoio è più ambiguo e crudele che mai: sceriffo dell’Arizona in una New York che non comprende e che lo rigetta, finisce per apparire ridicolo, con stivali e cappello, in contesti urbani abitati da hippie e tossicodipendenti.

Clint Eastwood, Susan Clark
L'uomo dalla cravatta di cuoio (1968) Clint Eastwood, Susan Clark

È il primo, radicale tentativo, da parte dell’attore (che con Siegel riscrive la sceneggiatura), di ritagliarsi personaggi con cui si fatica a identificarsi. È la versione aggiornata del “Buono” che buono non è mai fino in fondo, che spesso e volentieri esterna odio per donne e minoranze, che si lascia andare a violenze gratuite, che guarda il mondo con disgusto senza nessuna intenzione di renderlo migliore. Questi aspetti, parzialmente stemperati dall’ironia, torneranno esasperati in La notte brava del soldato Jonathan: Eastwood è un caporale nordista, ferito, in territorio nemico. Preso in cura all’interno di un collegio femminile, finirà per rimetterci la vita, sopravvalutando le proprie capacità di seduzione e manipolazione.

Clint Eastwood
Lo straniero senza nome (1973) Clint Eastwood

Nello stesso anno Eastwood esordisce alla regia, e non bisognerà aspettare molto per vederlo alle prese con un western: Lo straniero senza nome, rivisitazione opprimente e funerea del western italiano, esce nel 1973. Per la prima volta emerge uno dei temi cardine della sua filmografia, quello del revenant, che ritroveremo, più o meno esplicitamente, in molte delle regie successive. Il protagonista è un angelo vendicatore, una sorta di spettro, così come sarà quello di Il cavaliere pallido, in cui l’eroe è presentato come un emissario del cielo evocato in preghiera da una ragazzina. In mezzo a questi due film complementari, Eastwood dirige e interpreta Il texano dagli occhi di ghiaccio, forse il western meno personale e più avventuroso, attento al dato storico quanto Lo straniero senza nome era stilizzato e astratto. E se il suo primo western da regista era un’opera di una cupezza con pochi precedenti, qui il tono si fa più picaresco e leggero.

Clint Eastwood
Gli spietati (1992) Clint Eastwood

L’ultimo western di Eastwood è Gli spietati, il suo capolavoro. Attraverso la storia di William Munny, ladro e assassino ritiratosi a vivere con due figli in una modesta fattoria, interroga ancora il rapporto che intercorre tra il genere e la sua rappresentazione. Assistiamo qui alla più implacabile delle demitizzazioni: gli eroi sono vecchi, stanchi, prossimi alla morte, e in un mondo in cui il West è già un universo fittizio, sono divenuti protagonisti di leggende romanzate. Eastwood gioca sapientemente con il proprio corpo e le proprie rughe, e così fanno i magnifici comprimari: Freeman, Hackman, Harris. Eppure, anche se tutto sembra suggerire che Munny, chiamato a vendicare una prostituta sfregiata, finirà per soccombere all’antagonista Little Bill e ai suoi uomini, anche in questo caso la dimensione fantasmatica sembra prendere il sopravvento sulla verosimiglianza. Nell’ultima sequenza, quasi noir, a mo’ di commiato, Eastwood si trasforma per l’ultima volta, nelle parole di Guglielmo Pescatore, in «una forza del passato, un principio arcaico che è stato evocato e risvegliato per caso o per l’empietà degli uomini [...] come se Munny arrivasse da un tempo primitivo e arcaico che precede la storia e le convenzioni di genere».

Autore

Matteo Pollone

Matteo Pollone insegna Forme e generi dello spettacolo radiotelevisivo e Forme della serialità all’Università degli Studi di Torino. È autore delle monografie Il western di Anthony Mann (Le Mani, 2007) e, con Caterina Taricano, di Neil Jordan (Il Castoro, 2009); ha curato i volumi James Bond. Fenomenologia di un mito (post)moderno (Bietti, 2016) e Il western in Italia. Cinema, musica, letteratura e fumetto (Graphot, 2020). Collabora con l'Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza e con l’AIACE Torino. È inoltre consulente editoriale per le pubblicazioni a fumetti delle edizioni Allagalla.