Quando sfila sul red carpet, Kristen Stewart non somiglia a nessun’altra: che porti un abito di chiffon, un completo maschile o uno dei mille tailleur Chanel che Karl Lagerfeld le ha reinventato addosso, Stewart spicca innanzitutto per lo sguardo schivo, la mascella serrata, le labbra appena increspate in un sorriso forzato. La faccia di una che vorrebbe stare dovunque fuorché lì, nell’occhio del ciclone, assediata dai flash dei fotografi. Nel 2004 si era presentata a una première con una t-shirt di Dunkin’ Donuts, ma nessuno ci aveva fatto troppo caso: era ancora una ragazzina, dopotutto.

Quando, tra 2008 e 2012, Stewart diventa il volto della saga di Twilight (la cosa più esaltante dai tempi di Harry Potter, per gli adolescenti di allora), alcuni tratti cominciano a saltare all’occhio: Kristen fa coppia col co-protagonista Robert Pattinson, alimentando le fantasie romantiche di migliaia di fan, ma nei panni della teen idol sembra starci controvoglia, come un animale in gabbia. «Ma non sorride mai?». «Forse è un po’ str***a!». I maligni ironizzano sulla sua Bella Swan - la mortale innamorata, contesa da un vampiro e un lupo mannaro - e sulla sua gamma espressiva vagamente monocorde, a dispetto di uno script zeppo di scene madri. Fatto sta che a inizio anni 10, a Hollywood, Kristen non ha più bisogno di presentazioni: lei è una star di prim’ordine, i suoi flirt tengono banco sui tabloid, la sua faccia campeggia nelle camerette delle ragazzine di mezzo mondo. È in quel momento delicato e cruciale che Stewart spiazza tutti, rivolgendo il proprio sguardo all’Europa degli autori: che ci fa una come lei in un film di Olivier Assayas? È una geniale operazione di controcasting?

Sils Maria è un azzardo destinato a inaugurare una nuova fase nella carriera di Stewart, che negli anni successivi calcherà i set di gente come Woody Allen, Kelly Reichardt, Pablo Larraín, David Cronenberg. Lei è sempre la stessa attrice: recita perennemente accigliata, come in stato di torpore, troppo straniata (o scazzata) per abitare realmente lo spazio scenico che le si crea attorno. Lavora di sottrazione: è più magnetica nelle pause che nelle parole, è più a suo agio nei vuoti che nei pieni. L’indolenza che le era valsa critiche e commenti sarcastici diviene una cifra personale, una dimensione rivendicata con coerenza e ostinazione. Nel frattempo, fuori dallo schermo, Stewart cambia pelle, muta la propria immagine, s’inventa un modo tutto suo di colonizzare l’immaginario e il discorso pubblico: è un’antidiva, ma non è anti glamour. Non è lì per caso, lei, e non è certo fatta della stessa materia di noi comuni mortali. Ma non è nemmeno una principessina, un manichino da agghindare e infiocchettare a piacimento. I capelli sono sempre più corti, i look flirtano volentieri con la cultura punk.

Kristen è dichiaratamente bisessuale (e questo è affar suo), ma a interessarci è che un’intera comunità, a un certo punto, le attribuisca il ruolo di icona - androgina e sensualissima, queer e orgogliosa, imprendibile e altera. Stewart lavora con tutti, ma dà il meglio di sé quando duetta con colleghe di prima classe, costruendosi un lungo curriculum di collaborazioni illustri: affianca Juliette Binoche in Sils Maria, Laura Dern in J.T. LeRoy, Julianne Moore in Still Alice. Cede terreno, ma non si fa travolgere; lascia spazio, ma non molla la presa. Non lo ingaggia neanche, il testa a testa: alle primedonne, che si impongono sulla scena con la loro presenza, lei risponde con la caparbietà di un’assenza. Se la diva è un “segno” forte, denso, persistente, lei è un corpo fluido, debole, anfibio. Il punto è che Stewart incarna fin troppo bene il fantasma, l’ologramma, la copia evanescente e per questo perturbante: si trova spesso nel ruolo dell’assistente, dell’ancella della diva, e proprio in questi panni, ben più che in Twilight, abbraccia la sua natura più vampiresca (un po’ come Anne Baxter in Eva contro Eva: una predatrice silenziosa, mentre la figura della star inesorabilmente si sgretola).

Persino quando è sola, Stewart continua a incarnare quest’immagine disturbante del doppio, e lo dimostrano i tanti biopic di cui costella la sua carriera: J.T. LeRoy, in cui si finge una celebrità, è un gioco delle parti scoperto; Seberg - Nel mirino e Spencer sembrano all’apparenza one woman show, ma raccontano della stessa sfida sovrumana, dell’impossibilità di dividere lo schermo con icone troppo ingombranti (Jean Seberg o Lady D sono inimitabili: tanto vale tematizzarlo, questo scarto). In Personal Shopper, Stewart regala l’ennesima performance straniata, fuori tempo e fuori luogo. Non è più reale degli spiriti con cui comunica, e con questo suo stordito “stare al mondo” diviene simbolo di un sentire peculiare, di un preciso carattere di questi tempi allucinati: Kristen, come nessun altro, è il soggetto che si liquefà nell’eccesso di immagine; è l’attrice più moderna che ci sia, travolta dal fuoco amico del proprio riflesso.

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