1 stagioni - 6 episodi vedi scheda serie
I gemelli D’Innocenzo ci ricordano per fortuna che l’Italia non è il paese più bello del mondo. Tutt’altro. Un paese fatiscente, periferie squallide, architetture inospitali, umanità degenerate. “Fumiamo di male e di merda” dice Antonio, tutore dell’ordine che vorrebbe divorziare ma poi compra i biscotti senza latte e uova per le figlie. Quale sintesi migliore per rappresentare uno stato familiare malato. Enzo Vitello, invece, si tormenta per un male interiore. A capo delle indagini su un serial-killer che uccide spietatamente donne uomini e bambini, si annienta alla sua ricerca. Si tortura per la figlia Ambra abbandonata da piccola e che ora vive sbandata come lui.
Dostoevskij è il nome dato al misterioso omicida che lascia delle lettere scritte in stampato maiuscolo vicino ai cadaveri. Le definisce, al suo manipolo di uomini e al nuovo arrivato (il presuntuoso Fabio Bonocore), lettere piuttosto ripetitive: “…ritratti delle vittime nei loro ultimi istanti di vita, infarciti da aggettivi freddi, dissertazioni depresse e una finta naturalezza che vorrebbe farci intendere che l’unica motivazione dei delitti è la vita stessa”. Vitello coglie qualcosa in più e instaura un contatto: “Sono qua, ti leggo, va avanti”. Egli attende i delitti per scoprire della personalità dell’assassino. Soprattutto la psicologia, il dolore che li accomuna. La chitarra elettrica di Alan Sparhawk è un “Sagrado Corazon” che ricorda il “The end” dei Doors. E i D’Innocenzo raccontano unici l’orrore della vita e del quotidiano, lo squallore contemporaneo, il brutto che ci circonda. Enzo si rifugia negli psicofarmaci e talvolta nell’alcol per blindare gli istinti e la malattia inconfessabile. “Brindo a me fallimento di uomo, sangue rappreso, sapore di vomito”.
Quando Antonio diffonde le lettere alla stampa e Ambra il video porno che la riguarda, Vitello esplode e lascia la polizia per condurre in solitaria le indagini su una pista giusta. La città dei figli sbagliati è la chiave che lo porterà a sfiorare la morte tanto voluta e una ragione di continuità tra male purificatorio e male di vivere. “Vi ho guariti da questa assurda malattia di vivere” è la frase di svolta e la missione da compiere. Nella disfida e contrapposizione tra giovani e “vecchi”, i primi si amano troppo (in superficie), mentre i Vitello non hanno niente da perdere e prevalgono. Antonio, tra valori spariti e monologhi solitari, segue la bussola dell’amicizia appena perduta.
Filippo Timi vive la parte di Enzo: ansima, sussurra, urla, cerca il campo visivo della vita e della morte, con la sua voce cavernosa e una presenza potente che ti resta addosso. Non poteva interpretarlo nessun’altro. Gabriel Montesi reitera, incarna la stupidità della presunzione, la sicurezza vuota e senza sentimento dei tempi attuali. La fotografia naturale della pellicola in 16 mm di Matteo Cocco aggiunge qualità alla serie e al concetto in testa ai registi. Anche alcuni dialoghi apparentemente banali o fuori contesto (spesso con il bravo Federico Vanni/Antonio protagonista) danno un senso al quadro d’insieme apocalittico filmato dagli autori di Anzio. La smisurata cinefilia è presente senza nulla togliere alla loro totale originalità.
Dostoevskij (2024): Filippo Timi
Dostoevskij (2024): scena
Dostoevskij (2024): scena
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