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Corpi senza nome
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Certe volte i film che scelgo di vedere, ma soprattutto quando scelgo di vederli, illuminano con crudele malizia quel che accade nell’attualità. Sono coincidenze spontanee, non cercate, non provocate dalla volontà e proprio per questo, forse, riescono ad insinuarsi come fasci di luce improvvisi rivelando angoli ciechi in cui il pensiero non è arrivato. D’altronde il mio pensiero, ad un certo punto, nella costante narrazione di questa attualità è costretto a fermarsi. Per incapacità di procedere, per mancanza di elementi, per rifiuto, incredulità, pura sopravvivenza.

La mia dieta mediatica è composta da sguardi irregolari alle homepage dei principali quotidiani, dalla lettura di qualche articolo più astratto consigliato da qualcuno di cui mi fido e da un solo appuntamento fisso, serale, che mi permette di allinearmi con quel che accade e allo stesso tempo mi offre uno sguardo panoramico sul modo con cui i media affrontano le notizie. La sera, mentre ceno, ascolto Morning, il podcast di Francesco Costa, con il quale scivolo nella realtà o almeno nel ritratto che l’informazione ne offre. Poi mi butto sul divano e mi affido alla fiction, anche per fuggire. E a volte, certe volte, appunto, il meccanismo si inceppa, la fuga fallisce, la realtà rientra in gioco.

Questo è il racconto di un fallimento. E di un’epifania.

La fotografa gli gira intorno, lui se ne sta fermo, serafico con i suoi occhiali da studioso chic, con la sua barba corta, irregolare. Mi puoi sorridere con gli occhi?, gli dice. Guardami, gli dice. Lei sorride, lui la guarda. Lui sorride, lei scatta. Lui noto antropologo, lei fotografa. Lui bello, lei… Penelope Cruz. Poche parole scambiate dopo il set fotografico sono sufficienti per capirlo: c’è sintonia. Ma c’è un’ombra nel volto di lei, che squarcia quella bellezza solare: il suo passato, lontano ma presente. E parlarne con un antropologo, in effetti, sembra un’ottima idea.

Negli anni più duri del franchismo, in Spagna, alcuni membri delle famiglie che si opponevano alla repressione di Franco venivano eliminati e seppelliti in fosse comuni. I discendenti di questi corpi senza nome in Spagna sono ancora migliaia e sono in attesa delle necessarie risorse economiche per recuperare i resti, sebbene a volte sappiano con esattezza dove sono stati seppelliti dai franchisti, spesso ai bordi delle strade dove sono stati fucilati, a volte con una semplice pietra sulla terra per non dimenticare il posto. Tra questi c’è lei, la fotografa e, chissà, forse il noto antropologo potrà darle un consiglio, una mano, un aiuto a colmare questo vuoto.

La camera si muove sinuosa in una panoramica dell’esterno di un antico palazzo di Madrid, al primo piano di una finestra angolare, una tenda bianca si gonfia verso l’esterno sospinta dal vento o da una energia più primitiva. All’interno Janis e Arturo, la fotografa e l’antropologo, scoprono che la loro alchimia ha risposto molto rapidamente ad altri bisogni. Eppure il vuoto rimane. E, come tutte le assenze, anche quel vuoto spinge per essere colmato, lavora nell’ombra, nel buio, nel silenzio. Rivela debolezze, spinge verso soluzioni rapide, fisiche, umane, fallibili. Quell’angolo buio nella storia famigliare di Janis si traduce in un bisogno, uguale o opposto, un meccanismo di compensazione. E quella tenda bianca che si gonfia alla finestra sospinta dal vento, ne diventa il simbolo e l'anticipazione: colmare la memoria di famiglia aggiungendo un elemento alla storia di famiglia.

Janis è in ospedale, reparto maternità, siamo alle battute finali di una gravidanza alla quale il regista ha scelto di non farci assistere, perché la narrazione procede per punti cruciali, quel che conta è il risultato e non c'è bisogno di mostrare tutto. Quel che conta è il bisogno di Janis, quel vuoto che cercava di colmare scattando fotografie, fermando gli istanti in singoli fotogrammi. Da quel vuoto, ora, nasce una figlia.

Non importa se Arturo è il padre, se Arturo è presente, se stanno insieme, se Arturo farà il padre. Non importa se c'è stato un dialogo, se saranno una famiglia tradizionale: la paternità sarebbe un incidente, la maternità di Janis è una scelta. Per proiettare al futuro una famiglia che sta ancora aspettando di essere del tutto rivelata, una famiglia alla quale manca un pezzo, seppellito in una fossa comune.

Gli errori della grande Storia si riflettono nelle singole vite di chi li ha subiti ma le piccole storie legate a chi ancora giace in una fossa comune non finiscono con quel che resta di quei corpi, nelle cose che avevano con sé, nei vestiti che avevano addosso. Quelle storie non si esauriscono nel dolore monco dei familiari, nell'impossibilità di elaborare fino in fondo i propri lutti, in quella di ricomporre il ricordo dei corpi. La memoria non ha a che vedere con il passato, ma con il presente e con il futuro (Almudena Grandes). Perché, come dice Pier Maria Bocchi, proprio nella sua splendida recensione di Madres paralelas, "il sé può trovare compimento e soluzione unicamente in parallelo alla Storia. Chiarita, svelata, definita quest’ultima, anche la persona, finalmente, si precisa."
 

E così mentre Madres paralelas prosegue nell'accumulo di elementi, di coincidenze, di incroci tipicamente Almodovariani, mentre Janis cresce, nutre e ama la figlia di un errore, io aspetto che i fili tesi si distendano e che la storia si riveli, chiarisca, risolva.
Almeno qui, almeno in questo film.

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