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Festa del Cinema di Roma 2025: premi e recensioni
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Festa del Cinema di Roma 2025: premi e recensioni

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I verdetti resi noti nel pomeriggio di ieri hanno sancito la conclusione della 20° edizione della Festa del Cinema di Roma.
Il premio per il miglior film è andato a Left-Handed Girl del taiwanese Shih-Ching Tsou, mentre al francese Nino di Pauline Loquès è andato il Gran Premio della Giuria.
In coda a questa breve introduzione, riporto il testo del comunicato diffuso dalla Fondazione Cinema per Roma con la lista completa dei premi assegnati, e in seguito una playlist che altro non è se non la mia personale classifica di gradimento tra i 20 film che ho visionato e recensito, senza distinzione tra concorsi e sezioni, comunque sempre indicanti.
Tra questi, trovate il cinese Wild Nights, Tamed Beasts, per il quale Wang Tong ha vinto il premio per la miglior regia, l'iraniano/turco The Things You Kill di Alireza Khatami, premiato per la miglior sceneggiatura (del regista stesso), e Good Boy, primo film inglese del polacco Jan Komasa, il cui protagonista, Anson Boon, è stato votato miglior attore.
Per chi volesse, il voto in stellette che chiude ognuna delle mie recensioni è cliccabile, e permette di essere reindirizzati alla relativa pagina originale dove guardare - qualora reperibile - anche l'eventuale trailer.

 

FESTA DEL CINEMA DI ROMA
15|26 ottobre 2025



I vincitori della ventesima edizione della Festa del Cinema di Roma

La Festa del Cinema di Roma è ufficialmente riconosciuta come Festival Competitivo dalla FIAPF (Fédération Internationale des Associations de Producteurs de Films).

A seguire, tutti i riconoscimenti assegnati oggi, sabato 25 ottobre, nel corso della cerimonia di premiazione che si è svolta alle ore 17 presso la Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone.



CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA

La giuria presieduta dall’attrice, sceneggiatrice, autrice e regista Paola Cortellesi e composta dal regista e sceneggiatore finlandese Teemu Nikki, il regista e sceneggiatore britannico William Oldroyd, lo scrittore e illustratore statunitense Brian Selznick e l’attrice franco-finlandese Nadia Tereszkiewicz, ha assegnato i seguenti riconoscimenti ai film del Concorso Progressive Cinema:

- Miglior Film: LEFT-HANDED GIRL (LA MIA FAMIGLIA A TAIPEI) di Shih-Ching Tsou
- Gran Premio della Giuria: NINO di Pauline Loquès
- Miglior regia: WANG TONG per Chang ye jiang jin (Wild Nights, Tamed Beasts)
- Miglior sceneggiatura: ALIREZA KHATAMI per The Things You Kill
- Miglior attrice – Premio “Monica Vitti”: JASMINE TRINCA per Gli occhi degli altri
- Miglior attore – Premio “Vittorio Gassman”: ANSON BOON per Good Boy
- Premio speciale della Giuria: al cast del film 40 SECONDI



MIGLIOR OPERA PRIMA POSTE ITALIANE


La giuria presieduta dal regista e produttore argentino Santiago Mitre con il regista e sceneggiatore britannico Christopher Andrews e l’attrice italiana Barbara Ronchi ha assegnato – fra i titoli delle sezioni Concorso Progressive Cinema, Freestyle e Grand Public – il Premio Miglior Opera Prima Poste Italiane al film:

 

- TIENIMI PRESENTE di Alberto Palmiero (sezione Freestyle)


È stata inoltre assegnata una Menzione speciale agli attori Samuel Bottom e Séamus McLean Ross per California Schemin’ di James McAvoy.



PREMIO MIGLIOR DOCUMENTARIO


Per la prima volta quest’anno, è stato conferito un premio alle opere che esplorano il cinema del reale. La giuria presieduta dal regista, direttore della fotografia, montatore e produttore rumeno Alexander Nanau e composta dal regista e sceneggiatore Santiago Maza e dalla produttrice Nadia Trevisan ha assegnato – fra una selezione di titoli in programma nelle sezioni Concorso Progressive Cinema e Proiezioni Speciali – il Premio Miglior Documentario al film:


- CUBA & ALASKA di Yegor Troyanovsky (Proiezioni Speciali)



È stata inoltre assegnata una Menzione speciale al documentario Le Chant des forêts di Vincent Munier.


PREMIO DEL PUBBLICO TERNA


Fra i titoli del Concorso Progressive Cinema, gli spettatori hanno assegnato il Premio del Pubblico Terna al film:


- ROBERTO ROSSELLINI – PIÙ DI UNA VITA di Ilaria de Laurentiis, Andrea Paolo Massara, Raffaele Brunetti



Gli spettatori hanno espresso il proprio voto al termine della proiezione ufficiale e della prima replica di un film attraverso il QR Code posizionato all’uscita della sala.


I PREMI ASSEGNATI DALLA FESTA DURANTE LA VENTESIMA EDIZIONE

Nei giorni scorsi, la ventesima edizione della Festa del Cinema di Roma ha assegnato i seguenti riconoscimenti:


- Industry Lifetime Achievement Award a LORD DAVID PUTTNAM


- Premio alla Carriera a RICHARD LINKLATER


- Premio alla Carriera a JAFAR PANAHI

 

- Premio Master of Film a EDGAR REITZ

 

- Premio Progressive alla Carriera a NIA DACOSTA


La Regione Lazio ha assegnato il premio “Lazio Terra di Cinema” a CAN YAMAN

Playlist film

Un semplice incidente

  • Thriller
  • Francia, Iran
  • durata 105'

Titolo originale Un simple accident

Regia di Jafar Panahi

Con Vahid Mobasseri, Mariam Afshari, Ebrahim Azizi, Hadis Pakbaten, Majid Panahi

Un semplice incidente

Uscita in Italia: 6 nov 2025

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2025 - BEST OF 2025
«Quello che deve succedere succede», dice la moglie all'uomo alla guida dopo che un animale gli ha tagliato la strada finendo morto investito dalla loro auto. Poco dopo, anche l'auto sembra non stare troppo bene. Recatosi all'officina più vicina per un soccorso, il guidatore accende un ricordo terribile in uno dei meccanici, il quale, nel suo passo claudicante, e in particolare nel suono emesso dalla sua protesi, riconosce 'Gamba di legno', altrimenti detto 'Gamba rotta', ovvero l'aguzzino che lo torturò quando fu imprigionato perché dissidente, che non vide mai in viso perché fu sempre tenuto bendato. Dopo averlo pedinato, lo cattura e lo chiude in una panca nel proprio furgone, conducendolo in un terreno dove scava una buca per seppellirlo vivo. Al momento di farlo, però, le parole dell'uomo - che sostiene di non essere chi lui pensa - lo portano a dubitare del proprio istinto: e se davvero non fosse lui? Quindi lo tappa di nuovo nella panca, e si muove alla ricerca di altri prigionieri politici che, nella sua stessa condizione, possano aiutarlo a chiarirne l'identità.

Con It Was an Accident, Jafar Panahi, che il carcere iraniano lo ha conosciuto bene, prova a rispondere a una domanda semplice, legittima e pericolosa: cosa potrebbe accadere ad un aguzzino se finisse tra le mani di qualcuna delle sue vittime?
Le ferite, gli incubi, e la memoria del dolore come lascito indelebile di torture indicibili, sono il carburante che muove ognuna delle azione dei protagonisti di un film importante. Un pugno di personaggi diversissimi tra loro, tutti accomunati da ragioni sacrosante per avere desiderio di rivalsa nei confronti di chi gli ha segnato la vita per sempre, nel corpo e nella testa, ognuno con un ricordo ben preciso legato a un senso diverso dalla vista (nessuno lo ha mai visto il volto, ma c'è chi ne riconosce il puzzo del sudore e chi impazzisce sfiorandolo e riconoscendolo al tatto), si trovano a discutere su cosa sia giusto fare; a dibattere, dialogare, litigare, cercando dentro sé stessi il senso profondo della parola 'giustizia'.

Riuscendo a declinare un tema terribile con sensibilità e ironia, pur senza risparmiare la tensione, che domina tutta la splendida sezione conclusiva, Panahi introduce il tema dell'ineluttabilità della vendetta con l'intenzione di superarlo, di andare oltre lo schema della guerra perenne, indagando sullo stato attuale dei rapporti umani in Iran, e riflettendo su come i confronti civili tra animali sociali con un proprio intelletto siano possibili ad ogni latitudine. Anche lì.

VOTO: ****½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

The Things You Kill

  • Thriller
  • Polonia, Canada, Francia
  • durata 114'

Titolo originale The Things You Kill

Regia di Alireza Khatami

Con Hazar Ergüclü, Ekin Koç, Erkan Kolçak Köstendil, Ercan Kesal

The Things You Kill

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2025 - CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA
Laureato negli Stati Uniti in letteratura comparata, Ali è tornato in Turchia per insegnare all'università. Vive con la veterinaria Hazar, che da lui vuole un figlio, ma da tempo le nasconde gli esiti degli esami fatti, che attestano la debolezza dei suoi spermatozoi. Non troppo distante da casa loro, abitano i suoi genitori: Ali ha un rapporto tanto tenero con l'anziana madre, costretta a muoversi con il deambulatore e da lui accudita per quanto da lei concesso, quanto freddo e conflittuale con il padre, che la lascia sola per ore, mentre a lui si rivolge con sdegno e saccenza. Non fa in tempo a meditare, con la moglie, di proporre alla madre di trasferirsi da loro, che giunge la notizia della sua morte, avvenuto a causa di un incidente domestico dai contorni incerti. Mentre cerca di far luce sulle circostanze che hanno portato al decesso, nei pressi di un campo incolto di proprietà della famiglia che vuol far tornare florido conosce Reza, un vagabondo solitario arrivato dal nulla con velleità da giardiniere, che vive come una versione di sé: con lui meditano di vendicare la madre nell'unico modo possibile.

Nel contesto di una società fortemente patriarcale ad ogni livello (la sterilità del protagonista è uno stigma che uccide la sua mascolinità, e per questo la nasconde), l'iraniano Alireza Khatami, che ambienta e gira in Turchia per evitare la mannaia della censura in patria, mette in immagini con The Things You Kill il tentativo di affrancamento di un figlio dall'eredità culturale respingente tramandatagli dal padre, che avviene però reagendo alla violenza con altrettanta violenza - essendo quello il codice - solo declinata in maniera diversa, difensiva, reattiva, laddove prima era un gesto aggressivo di comando. The Things You Kill è un'opera stratificata e multiforme, che inizia con un sogno e finisce con un incubo, un'esperienza sensoriale popolata da doppi e fantasmi nella quale la realtà incontra l'immaginazione, capace di cambiare pelle in corsa e più volte, che parte come un dramma psicologico, si sviluppa come un revenge movie familiare, per poi prendere la strada di una mistery story con elementi surreali che non possono non far pensare a David Lynch. Il tutto, con una coerenza narrativa pregevole e la forza di saper portare il discorso fino in fondo. Notevole.

VOTO: ****

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Hen

  • Drammatico
  • Germania, Grecia, Ungheria
  • durata 96'

Titolo originale Kota

Regia di György Pálfi

Con Yannis Kokiasmenos, Maria Diakopanayotou, Argyris Pandazaras, Antonis Tsiotsiopoulos

Hen

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2025 - CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA
Hen si apre con il primo piano del culo di una gallina, che insiste fino a quando un uovo non ne viene espulso: l'uovo rotola finendo disposto simmetricamente insieme a una miriade di altri fino al momento della schiusa. Ad uscire sarà l'unico pulcino nero in un mare di gialli, per questo scartato una volta cresciuto, e trattenuto nel camion dell'autotrasportatore per farci la zuppa quella sera stessa.
Ci sono film che sembrano nati per essere proposti all'interno dei festival, perché considerati concettualmente di nicchia e dunque impossibili da propinare al grande pubblico: film che già alla lettura della sinossi si presentano come oggetti quantomeno strani, sotto qualche profilo estremi, senza dubbio sperimentali; e che, se da un lato corrono il rischio di crollare sotto il peso dell'aspettativa che creano, dall'altro possono risultare talmente riusciti e originali da fissarsi nella memoria. Hen (Gallina) di György Pálfi appartiene senza dubbio a quest'ultima categoria.
La giovane gallina nera destinata a finire in un piatto per l'ora di cena, esce dal camion dominata nulla più che dai propri bisogni basici, e agli stessi risponde per tutta la durata del film, pedinata da una telecamera che assume la sua prospettiva e che porta chi segue il suo girovagare a leggere secondo codici umani i suoi spostamenti, favorendo l'empatizzazione attraverso l'utilizzo attivo di una colonna sonora complice che passa dal Bolero di Ravel alle musiche originali di Sz?ke Szabolcs, fino ad un pezzo folk greco di Dimitris Mitropanos scelto per contrappuntare una scena di corteggiamento avicolo.

Se già questo di per sé basta a rendere unico il nuovo film dell'autore di Taxidermia, tanto più che non c'è ombra di effetti speciali o CGI, ma solo l'inseguimento e la cattura (con la videocamera, si intende) di otto diversi esemplari in pelle, piume e ossa fatti crescere con l'abitudine di avere uomini tra le zampe, a dargli la dimensione della profondità è la scelta programmatica di mettere l'uomo e le sue nefandezze sempre chiaramente in secondo piano, con un peso specifico che cresce nel corso del racconto fino a diventarne il fulcro nella sezione finale, ma senza per questo deviare di un centimetro dalla prospettiva di partenza.
Se l'antropomorfizzazione delle 'scelte' della gallina è tutta nei sensi di chi assiste al film - lo guarda, lo ascolta -, l'innocenza e l'incoscienza di quel punto di vista diventano il paradigma attraverso il quale le voci umane vengono percepite e le scelte interpretate: in faccia all'istintività fine a sé stessa dell'animale, l'uomo, con i suoi calcoli egoistici e i suoi traffici loschi, si staglia per miopia, menefreghismo e cattiveria.
Originale, divertente, denso e indimenticabile.

VOTO: ****

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Good Boy

  • Thriller
  • Polonia, Gran Bretagna
  • durata 110'

Titolo originale Good Boy

Regia di Jan Komasa

Con Stephen Graham, Andrea Riseborough, Anson Boon

Good Boy

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2025 - CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA
Nel corso di una notte inglese di ordinario teppismo, Tommy schiaffeggia un buttafuori, si alcolizza, si fa di coca e pasticche, cornifica la ragazza e per finire urina e si masturba davanti allo specchio di un bagno pubblico. A fine serata viene catturato che ancora barcolla, e l'indomani si risveglia nello scantinato di una casa di campagna, legato a catena con un collare di metallo come un cane.
Sullo schermo che ha nella stanza, rigorosamente posto a distanza di sicurezza rispetto al raggio d'azione lui consentito, passano solamente i video che lui o qualche suo amico ha postato sui social, ad immortalarne violenze e vandalismo vario, alternati a filmati educativi con lo scopo di farlo pentire delle malefatte e 'riprogrammarlo' inculcandogli le buone maniere.
I carcerieri sono una famiglia singolare composta dal padre Chris, un uomo preciso e metodico il cui primo gesto ogni mattina è incollarsi un parrucchino che gli fa un capello perfettamente squadrato, dalla madre Kathryn, una donna dall'aria smunta, trasandata e spettrale, apparentemente passiva ma in realtà direttiva, e il figlio Jonathan, che sembra preparato a rapportarsi al nuovo entrato come a un fratello. A questo quadro di famiglia irritualmente allargata si aggiunge Rina, una domestica macedone appena assunta per fare le pulizie una volta a settimana, con l'obbligo di consegnare il telefono all'ingresso, e la minaccia di attivarsi per far rinverdire un decreto di espulsione appena revocato se non si fa gli affari suoi.

Merito del regista polacco Jan Komasa (qui al primo film in lingua inglese, prodotto da Jeremy Thomas e Jerzy Skolimowski), è aver reso Tommy talmente odioso e disgustoso nell'incipit da far passare come 'accettabile' - miracoli del cinema! - l'idea di vederlo legato e ridotto all'inoffensività, di conseguenza restituendo legittimità ai propositi 'rieducativi' della strana famigliola.
Questo scarto di prospettiva è la chiave di lettura di un film che sa sguazzare nella propria ambiguità, con gli aguzzini che, capaci di cantare gli auguri di compleanno con tanto di torta e candeline in un contesto folle, riescono ad apparire più stravaganti che mostruosi, e ad innescare un rapporto basato sulla fiducia, che da parte loro si misura in centimetri di catena concessi, e da parte della vittima di spazi di libertà guadagnati.
Nel suo fluttuare, in uno sviluppo degli eventi progressivo e sorprendente, tra il thriller sadico, il dramma psicologico e la commedia nera, Good Boy si presta a letture metaforiche sui rapporti interpersonali, ed ha l'ardire di ingenerare domande scomode, paradossali, e moralmente irricevibili: è meglio essere liberi ma soli, o prigionieri ma protetti? è preferibile una libertà senza punti di riferimento, o una tirannia con margini?

VOTO: ***½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

L'agente segreto

  • Thriller
  • Brasile
  • durata 160'

Titolo originale O agente secreto

Regia di Kleber Mendonça Filho

Con Wagner Moura, Udo Kier, Gabriel Leone, Maria Fernanda Cândido, Hermila Guedes

L'agente segreto

Uscita in Italia: 15 gen 2026

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2025 - BEST OF 2025
Armando, detto Marcelo per gli amici.
Anzi no, detto Marcelo proprio per difendersi dai nemici...
Nel Brasile del 1977, in piena dittatura militare, un ricercatore scientifico universitario fugge da San Paolo verso la propria città natale, Recife, alloggiando con altri dissidenti e lavorando sotto copertura presso l'anagrafe per risolvere delle questioni familiari e cercare il modo per tornare a vivere il proprio figlio ed essere per lui determinante, ormai prossimo all'età della prima adolescenza, ma anche con il sospetto - che presto evolve in consapevolezza - che il passato da cui tenta di allontanarsi è in realtà un pericolo ancora vicino, vivo e concreto.

Alla ricostruzione di quel passato, nonché dell'insieme del contesto storico e culturale che fa da teatro agli eventi, tiene tanto il regista Kleber Mendonça Filho (che peraltro in quegli anni aveva la stessa età del figlio del protagonista), che si spende in un lavoro filologico che è impegnativo per lui, ma che lo è anche di più per chi riceve dall'altra parte dello schermo: dilungandosi in dettagli anche oltre il dovuto, rende la prima ora della pellicola la sua parte più ostica oltre che verbosa e pregna di informazioni non sempre fondamentali; di certo, restituisce chiare e evidenti le dinamiche di controllo, manipolazione e corruzione dalle quali Armando detto Marcelo (un gigantesco Wagner Moura) deve cercare di difendersi.

Tuttavia, è quando i nodi vengono al pettine, e la minaccia che prima si limitava ad aleggiare assume forma e sostanza, che O Agente Secreto fa un deciso scatto in avanti e non si ferma più: si fa perdonare l'iniziale prolissità e si sviluppa vibrante, teso ed emozionante, fino a sfociare in un arguto flashforward sul presente, che tira metaforicamente le somme delle perdite nella memoria di un intero paese.

VOTO: ***½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

L'accident de piano

  • Commedia
  • Francia
  • durata 88'

Titolo originale L'accident de piano

Regia di Quentin Dupieux

Con Adèle Exarchopoulos, Sandrine Kiberlain, Karim Leklou, Jérôme Commandeur, Clara Choï

L'accident de piano

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2025 - CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA
Magalie è affetta dalla nascita da insensibilità congenita al dolore. A quattordici anni, invidiosa del dolore che provano gli altri, per la prima volta si riprende con il telefonino mentre si collega ai denti i cavi per la batteria dell'auto del padre, ma non riesce a procurarsi nemmeno solletico; il padre, dopo averla cazziata, manda il filmato ai propri amici, tanto per fargli vedere che figlia burlona abbia. Dal momento che il video in poco tempo diventa virale, realizza che questa strana patologia, più che un problema, può diventare per lei una dote, una fonte di guadagno. Nata, nel 1989, lo stesso giorno dell'avvento del web, fa del web la propria fortuna: si iscrive a tutti i social possibili, e inizia pubblicare filmati nei quali si autoinfligge qualsiasi tortura, partendo da una semplice martellata su una mano, passando a traforarsela con un punteruolo, e poi pensandone ogni volta una nuova e sempre più estrema.

Va chiarito che Magalie è un personaggio di fantasia: bisogna specificarlo perché, nell'era dei social media, il suo profilo eccessivo, sguaiato e misantropo, è terribilmente plausibile. Ne L'accident de piano, il regista Quentin Duplieux precipita il racconto in un mondo amorale nel quale non si salva nessuno: dalla protagonista, figlia degenere della deriva digitale, inabile alla relazione e incapace di gestire la propria instabilità emotiva, al suo servile e inseparabile assistente, appiattito sui bisogni di lei al punto di accettare di esserne complice anche quando con i suoi deliri di onnipotenza varca l'ultima soglia.
Il film la incontra con lui nel presente, con il conto in banca a diversi zeri, mentre ferita - con il collare cervicale e un braccio ingessato in seguito all'incidente del titolo - si reca in uno chalet di montagna a meditare sul da farsi. Una giornalista arrivista che si presenta via mail per ricattarla allo scopo di svoltare la carriera, e due fan ottusi e pedestri che le danno il tormento per avere una foto ricordo, completano il quadro di umanità degenere di cui sopra.

Con somma attenzione da riservare alle parole utilizzate dalla protagonista, che nei suoi sproloqui (prima di cedere e definirsi "la peggior merda") arriva a darsi dell'artista, ma che altro non fa che dilaniare pezzo per pezzo il proprio corpo, monetizzando il proprio progressivo disfacimento, Quentin Duplieux si fa assecondare dalla notevole interpretazione di Adèle Exarchopoulos, scattosa e fisiologicamente sopra le righe, per mettere alla berlina, sotto la forma di una commedia nerissima, il vuoto cosmico attorno a cui nascono e muoiono oggi gli influencer, indotto di claque decerebrata, pagante e soprattutto volatile compreso.

VOTO: ***½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Six Days in Spring

  • Drammatico
  • Francia, Lussemburgo, Belgio
  • durata 94'

Titolo originale Six jours ce printemps-là

Regia di Joachim Lafosse

Con Eye Haidara, Leonis Pinero Müller, Teodor Pinero Müller, Jules Waring

Six Days in Spring

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2025 - CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA
Dal luogo dove sta lavorando di notte, Sana chiama a casa i due figli: sbrigatevi a fare la doccia che si parte. L'appuntamento è con Jules, che sta a Lione, e che i ragazzi conoscono bene in quanto loro allenatore di calcio; ma il programma cambia in corsa per un imprevisto: l'appartamento in cui dovevano alloggiare per sei giorni non c'è più, occupato dalla sorella di lui; quindi che fare? Lui ha fermato un posto, ma costa un'esagerazione, e lei con due bambini non vuole gravare così tanto sulle sue tasche generose. I ragazzini propongono Gassin: lei prima prova a ignorarli, poi realizza che è l'unica soluzione fattibile, purché rischiosissima. Andiamo, fa lei, ma i nonni non lo devono sapere, e neanche papà.

Perché lei conserva le chiavi, ma non ha più il permesso di accedere alla casa al mare degli ex suoceri. Costretta a patire - e far sentire ai figli - il declassamento sociale subito con la separazione, Sana, che trasuda dignità e si sbatte per mettere insieme il pranzo con la cena, approccia a questa vacanza di sei giorni in primavera nel terrore di esser scoperta e passare guai: evita di far rumore, utilizza al minimo acqua e elettricità, e se potesse sparirebbe pur di non esser notata dai vicini, che altro non sono ormai che potenziali spie nemiche; e Jules si adegua, consapevole della delicatezza del quadro. I figli, invece, si sentono ancora a casa, e - con i loro dieci anni - i moniti a far silenzio e non fare cavolate proprio non li ascoltano...

Six jours ce printemps-là nasce dai ricordi d'infanzia del regista Joachim Lafosse, figlio di padre ricco e madre povera, e rimasto con lei una volta respinta dalla famiglia del padre benestante.
Molto del film è nel contrasto tra il senso di pericolo imminente che la madre vive come un macigno pronto a travolgerla, e l'iniziale fisiologica leggerezza dei figli, che in questa ultima vacanza 'rubata' in casa dei nonni avranno modo di elaborare definitivamente la lontananza del padre, ma anche di provare emozioni contrastanti nel vederla con un altro uomo accanto, prima vivendolo come una minaccia, poi apprezzando la felicità che a lei procura.
L'inquietudine e la tensione emotiva della donna, alle prese con un luogo che rappresenta un passato con cui il legame è stato reciso, cozza con l'innocenza e il bisogno di libertà dei suoi ragazzi, chiamati a crescere, a comprendere che quel posto non potrà più essere accogliente, a ridisegnare i contorni e riformulare i contenuti del concetto di famiglia che avevano conosciuto.

VOTO: ***½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Vita privata

  • Giallo
  • Francia
  • durata 105'

Titolo originale Vie privée

Regia di Rebecca Zlotowski

Con Jodie Foster, Virginie Efira, Mathieu Amalric, Daniel Auteuil, Vincent Lacoste

Vita privata

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2025 - GRAND PUBLIC
Mentre è nel suo studio, in tarda sera, la psicoterapeuta Lilian (Jodie Foster) riceve una visita da un paziente, il quale la informa di non volerla più vedere, perché arrivato da lei 8 anni addietro con l'obiettivo di togliersi il vizio del fumo ed avendole corrisposto nel tempo 40.000 euro senza cavare un ragno dal buco, è riuscito ad ottenere il risultato grazie a soli 20 minuti di ipnosi spendendone in tutto 50: quindi, arrivederci e grazie. Ingoiato il rospo, riceve via telefono una notizia ancor più ferale: un'altra sua paziente di lungo corso, Paula, che aveva saltato le ultime tre sedute, è morta: dall'altro capo c'è la figlia, che la invita a passare l'indomani per darle l'ultimo saluto. Ma la visita finisce male, con il vedovo che ha un malore e appena la vede la prende a maleparole e la caccia.

Uscita provata anche dalla poco fruttuosa visita al proprio figlio Julien, che gli rinfaccia il disinteresse nei confronti del nipotino di appena due mesi, Lilian inizia a perdere il controllo delle proprie emozioni e a non gestire le lacrime, quindi torna dopo anni a trovare il proprio ex marito Gabriel (Daniel Auteuil), che è oculista, nel suo studio per fare un check-up per capire se ha qualcosa agli occhi; dopo di che prova anche a rintracciare l'ipnotista di cui sopra, che per farla smettere di piangere la precipita in un sogno che la porta a suonare il violoncello insieme a Paula in un'orchestra tedesca negli anni '40. Alcuni dettagli di questa allucinazione, insieme alle informazioni avute dalla figlia, e ad alcune altre che ha registrate e che fanno parte del proprio segreto professionale perché ricevute dalla moritura nel corso delle varie sedute, la inducono a pensare, in maniera sempre più convinta, che Paula, ufficialmente morta suicida, sia in realtà stata uccisa.

Vie Privée di Rebecca Zlotowski si attorciglia sui pensieri, le elucubrazioni, i ricordi e i rimossi della sua protagonista, perché il terreno sul quale buona parte del racconto si dipana è prima di tutto la sua mente: o meglio, l'espediente narrativo che mette in moto il film origina come meccanismo di autodifesa della psicoterapeuta stessa, attivato in seguito a due pugni secchi sullo stomaco ricevuti in sequenza - a livello professionale - che ammazzerebbero un toro.
Thriller psicologico di facciata (dai toni caustici e sempre leggeri) Vie Privée è nel cuore una commedia psicanalitica, un viaggio interiore, una sorta di anti-terapia (in)consapevole cui una fantastica Jodie Foster bilingue (la sua Lilian è una statunitense di casa in Francia) presta testardaggine e nevrosi, coadiuvata - e sono i momenti migliori del film - da un Daniel Auteuil elegante e lieve, ex marito che le torna accanto aiutandola ad elaborare i propri errori e le proprie sconfitte. Al suo servizio, una regista diligente che non fa danni, e una sceneggiatura che (scritta a sei mani con Anne Berest e Gaëlle Macé), più che di creare suspense, ha l'urgenza di alimentare voli di fantasia e sospetti, e in maniera più ampia di riflettere sul potere soverchiante del senso di colpa.

VOTO: ***½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Winter of the Crow

  • Thriller
  • Polonia, Gran Bretagna, Lussemburgo
  • durata 112'

Titolo originale Winter of the Crow

Regia di Kasia Adamik

Con Lesley Manville, Tom Burke, Rhianne Barreto, Zofia Wichlacz, Arron Long, Andrzej Konopka

Winter of the Crow

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2025 - CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA
Dicembre 1981. Invitata a Varsavia per una conferenza di presentazione di una propria ricerca, la docente londinese di psichiatria Joan Andrews scende dall'aereo e non vede arrivare il bagaglio, che pare sia stato perso. Impossibilitata a recuperarlo nell'immediato a causa degli orari contingentati, viene condotta da una giovane attivista sua grande ammiratrice all'università per parlare a braccio, ma la protesta studentesca monta e l'evento salta.
Quella stessa notte, il generale Jaruzelski istituisce la legge marziale e chiude le frontiere.
Con la situazione politica gravemente compromessa, la donna si trova sola in una Polonia in preda ai disordini e alla repressione, senza conoscere la lingua e con quasi nessuno di cui fidarsi, con il pensiero fisso di dover recuperare il passaporto (che era nel bagaglio misteriosamente scomparso) per poter sperare di volare via prima possibile, e con null'altro con sé che la propria polaroid, impugnando la quale assiste ad un brutale assassinio da parte della polizia segreta.

Ispirato ad un racconto della scrittrice premio Nobel Olga Tokarczuk, Winter of the Crow, di Kasia Adamik, è un thriller claustrofobico e trattenuto, affogato nella paranoia e nel senso di oppressione, il cui teatro è una Varsavia gelida e inospitale, resa in gradazioni di grigio, nero e piombo dalla splendida fotografia, sgranata e sporca, di Tomasz Naumiuk, e il cui nucleo è una storia ansiogena che ad un buon inizio e a un bel crescendo finale frappone qualche momento di stanca, dominata dall'ottima prova della mutevole Lesley Manville che, nel ruolo della protagonista, è abile a restituire il caleidoscopio di stati d'animo che la attraversano con l'evolvere degli eventi e lo svilupparsi dei rapporti umani, dove spaesamento e frustrazione sono le fasi intermedie di un percorso che parte da un infastidito distacco, per concludersi con una sincera partecipazione emotiva (e di conseguenza paura).

VOTO: ***½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Elena del ghetto

  • Drammatico
  • Italia
  • durata 98'

Regia di Stefano Casertano

Con Micaela Ramazzotti, Valerio Aprea, Giulia Bevilacqua, Caterina De Angelis

Elena del ghetto

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2025 - GRAND PUBLIC
La notte tra il 15 e il 16 ottobre del 1943, sotto una pioggia battente, una donna corre tra le strade e i vicoli del ghetto ebraico di Roma, e in barba allo shabbat e al coprifuoco, urla a squarciagola per svegliare più gente possibile: bisogna fare i bagagli e scappare, perché domani i tedeschi arrivano e portano via tutti. Il suo allarme, però, viene ignorato dal suo popolo, perché lei, in fondo, è 'Elena la matta'. E come si fa a dare credito a una con quell'appellativo lì?

Elena del ghetto, di Stefano Casertano, si ispira alla vera storia di Elena Di Porto (raccontata anche nel libro di Gaetano Petraglia La matta di piazza Giudia del 2022, citato nei titoli di coda).
Elena è considerata matta perché abituata a rispettare il prossimo e farsi rispettare lei stessa, perché è scappata dal marito ubriacone, lavativo e manesco in un'Italia nella quale la donna è abituata ad obbedire all'uomo, a mettere la gonna, a stare a casa a badare ai bambini e ai fornelli; è considerata matta perché gelosa della propria libertà e della propria indipendenza; è matta perché sincera, spontanea e senza peli sulla lingua.
Elena è matta perché è testardamente anticonformista, è matta perché precorre il femminismo in tempi di fascismo.

Dopo l'incipit sopra descritto, il film di Casertano torna indietro al 1938, a poco prima dell'introduzione delle leggi razziali, e da lì parte con la descrizione della quotidianità di questa donna che porta i pantaloni e gli straccali perché le piace così, che gioca a biliardo meglio degli uomini, che tira di boxe dando pugni e accettando di riceverli, che fuma e che prende di petto i fascisti quando in sei contro uno accerchiano e bastonano il malcapitato di turno, finendo denunciata, spedita al manicomio, e poi refertata come antisociale e deviata in quanto ebrea.

Casertano si incolla a questa donna guidata da niente altro che senso della giustizia, e affida a Micaela Ramazzotti il compito di restituirne la sfrontatezza ed il coraggio, realizzando un racconto commovente che consegna la ribalta ad un personaggio poco noto al netto delle onorificenze recenti (c'è un olivo nel Giardino dei Giusti dell'Umanità di Roma a lei dedicato, e una pietra d'inciampo apposta in Via Portico d'Ottavia), inserendo, all'interno di una descrizione minuziosa e senza sconti del crescendo di violenza disumanizzante che fu il nazifascismo, il ritratto di una donna forte, coraggiosa e profondamente sovversiva, che combatteva per l'autodeterminazione propria e per la libertà della propria gente, mostrandosi decisa e generosa sempre. Fino alla fine.

VOTO: ***½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Wild Nights, Tamed Beasts

  • Giallo
  • Cina
  • durata 120'

Titolo originale Chang Ye Jiang Jin

Regia di Tony Wang

Con Regina Wan, Xiaozhi Rao, Chuxiao Qu, Yiqian Guo, Xiaolei Huang, Jianyu Ou, Qingchang Sun

Wild Nights, Tamed Beasts

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2025 - CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA
«La situazione di sua madre è compromessa: se sfortunatamente dovesse accaderle qualcosa prima che passi un mese, voglio che mi venga pagato per intero». Questa frase macabra e cinica è l'avvertenza con la quale Xiaolin si introduce nella casa di una signora anziana in condizioni critiche nel ruolo di badante. Di lì a poco, la si osserva somministrare una pappetta e preparare un misterioso composto per poi iniettarglielo: la donna muore, lei incassa lo stipendio, quindi si getta alla ricerca di una nuova missione.
Deyong, affetto da una poliomelite che gli sta causando l'atrofia del muscolo di un polpaccio, è l'anello debole di una famiglia nella quale il padre, dopo il secondo ictus e una annessa grave emorragia cerebrale, ha bisogno di assistenza continuativa: a pagarla sarà la sorella, ma a gestire i rapporti con la persona scelta sarà lui.
Nel corso del colloquio al termine del quale viene assunta, Xiaolin ripropone la stessa macabra avvertenza del paziente precedente. E tutto potrebbe andare esattamente alla stessa maniera, se a fare la differenza non ci fosse la presenza costante di Deyong, che vivendo con il padre entra necessariamente in relazione con Xiaolin, infatuandosene.

Il contesto entro cui prende le mosse Wild Nights, Tamed Beasts, è la constatazione di come, in Cina, a livello di organizzazione politica nazionale, la vecchiaia sia una fase della vita dell'uomo sottovalutata, se non del tutto ignorata, mancando una degna rete di assistenza sociale, e venendo favorito di conseguenza il diffondersi di figure di complemento, delle quali quella oggetto del racconto rappresenta un esempio estremo e deviato: non troppo interessato però all'idea di un critica sociale da intendere in senso canonico, il regista Wang Tong, al primo lungometraggio, prende la strada tortuosa di un noir romantico e perverso che si nutre a lungo dell'equivoco nato negli occhi a cuoricino dell'uomo, che misinterpreta la condotta della donna, scambiando la sua freddezza con una timidezza nell'approccio che in realtà proprio non le appartiene, non comprendendo di essere - lui che da tempo si batte per evitare l'uccisione di un vecchio leone cui aveva badato - agli antipodi per quanto riguarda la prospettiva di vita del padre, laddove la donna, a sua volta fisicamente menomata perché portatrice di una malformazione cardiaca congenita, ha probabilmente prospettive (e programmi) brevi anche per sé stessa.
Wang Tong mette più carne al fuoco di quanto appaia in apparenza, dando il meglio nei momenti più intimisti e ogni tanto perdendosi in qualche lungaggine o svolazzo formale di troppo, firmando un esordio di certo imperfetto, ma coraggioso, singolare, comunicativo.

VOTO: ***

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

40 Secondi

  • Drammatico
  • Italia
  • durata 121'

Regia di Vincenzo Alfieri

Con Justin De Vivo, Francesco Gheghi, Luca Petrini, Giordano Giansanti, Francesco Di Leva

40 Secondi

Uscita in Italia: 19 nov 2025

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2025 - CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA
Sono passate da poco le 3:15, quando Ludovico, maresciallo dei carabinieri, scende di casa perché per la strada è successo qualcosa di grosso: un capannello di ragazzi gravita attorno al corpo di un loro coetaneo che sta morendo. Di lì a poco, va a cercare i "gemelli" nel bar dove sa che li troverà, intimandogli di sbrigarsi ad andare a farsi vedere al comando.
È la notte tra il 5 e il 6 settembre 2020, il paese (mai citato direttamente) è Colleferro, e il ragazzo che spira, ammazzato di botte, è Willy Monteiro Duarte, ventunenne italiano di origini capoverdiane.

Insieme allo sceneggiatore Giuseppe G. Stasi, il regista Vincenzo Alfieri romanza il libro inchiesta di Federica Angeli, e a fronte dei 40 secondi del titolo, che sono il tempo bastato per realizzare il pestaggio omicida, prova ad immaginare cosa sia accaduto nelle ultime 24 ore: struttura quindi il film in quattro macroepisodi, ciascuno dei quali ricostruisce la giornata di ognuno dei personaggi risultati poi determinanti (Maurizio - Michelle - Lorenzo e Federico - Willy). Allo scopo di mantenere un taglio documentaristico, mescola attori veri ad altri scelti per la strada, pedinandoli con camera a mano e riprese spesso ravvicinate, e facendoli esprimere in un linguaggio che trasuda spontaneità.

L'esito è un film interessante e crudo, che funziona alla perfezione dal lato della fluidità e degli incastri del montaggio nonostante la presenza di un finale di troppo (l'epilogo, con l'ultima giornata di lavoro di Willy, francamente evitabile), che annota la presenza di una mentalità patriarcale pressoché inscalfibile, che osserva le dinamiche dei rapporti tra giovani e l'incomunicabilità tra loro e le generazioni dei loro padri, ma che, nel suo racconto costituzionalmente frammentato, sembra indagare poco, o almeno non abbastanza, su come la delinquenza abbia radici nell'incultura e nel culto della violenza.

VOTO: ***

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Die My Love

  • Horror
  • Gran Bretagna, USA
  • durata 118'

Titolo originale Die My Love

Regia di Lynne Ramsay

Con Jennifer Lawrence, Robert Pattinson, Nick Nolte, Sissy Spacek, Lakeith Stanfield

Die My Love

Uscita in Italia: 27 nov 2025

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2025 - BEST OF 2025
Un'inquadratura fissa e ampia mostra gli interni di una casa di campagna abbandonata, disordinata e sporca. Fuori campo, sul punto di entrare, si ascolta Jackson raccontare di come questa casa, che fu dello zio, gli accenda ricordi d'infanzia: non è New York, ma ora è tutta sua e di Grace, che è lì con lui e che potrebbe trarne ispirazione per scrivere il suo 'grande romanzo americano'. Esaurita questa chiacchierata introduttiva, un pezzo punk scatenato (Zero, scritto e cantato dalla stessa regista, Lynne Ramsay) fa da contrappunto a un excursus di un paio di minuti sul primo anno trascorso lì dentro dalla coppia, passato - sembrerebbe - a far null'altro che scopare in tutte le posizioni, salvo poi ritrovarsi con un pargolo da accudire.
Mentre il piccolo gattona in casa perché è il tempo suo, lei lo fa per i campi (ma con un coltello di cucina in mano) per apparire ancora sensuale (e minacciosa) agli occhi di lui, che in tutta risposta se ne sta sulla veranda, oppure traffica con un cannocchiale presumibilmente ereditato dall'avo defunto. Mentre l'attrazione, da parte di lui, inizia a scemare, in lei sono sempre più frequenti comportamenti che ne denotato un'instabilità pericolosamente marcata.

Die My Love, di Lynne Ramsay, osserva la discesa negli inferi della depressione e della follia da parte del personaggio splendidamente interpretato da una Jennifer Lawrence conturbante, selvaggia e spaventosa. E se sotto questo profilo il film è inquietante, oltre che visivamente potente e formalmente avvolgente, oltretutto arricchito dalla presenza dei veterani Sissy Spacek e Nick Nolte in due ottimi ruoli (rispettivamente la madre ed il padre di lui), a non convincere fino in fondo sono la caratterizzazione e le scelte affidate al coprotagonista del flemmatico Robert Pattinson, il quale, se da un lato inizia legittimamente a prolungare le proprie assenze perché oltre a dover lavorare sente probabilmente il bisogno di allontanarsi il più possibile da un'insopportabile invasata, dall'altro è portato a far cose che trovano come unico senso la necessità per gli sceneggiatori di trovare un espediente che dia una svolta alla sceneggiatura (a che scopo, altrimenti, comprare dal nulla un cane a una donna che non lo ha mai chiesto e che è già in chiara difficoltà con un cucciolo d'uomo?).
Un discorso a parte merita la clamorosa colonna sonora rock, che va dai Cream a Billie Holiday, da David Bowie a Elvis Presley, con la regista che, oltre al brano iniziale già citato, si riserva di mettere la propria voce anche su una cover di Love Will Tear Us Apart dei Joy Division, piazzata sui titoli di coda.

VOTO: ***

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Rental Family

  • Commedia
  • Giappone, USA
  • durata 103'

Titolo originale Rental Family

Regia di HIKARI

Con Brendan Fraser, Takehiro Hira, Mari Yamamoto, Akira Emoto, Nihi

Rental Family

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2025 - GRAND PUBLIC
Trasferitosi in Giappone da sette anni, Philip, attore statunitense, passa le sere affacciato alla finestra a guardar scorrere le vite della gente del palazzo di fronte. Nel frattempo cerca un lavoro che gli dia un minimo di stabilità, costretto a barcamenarsi tra travestimenti da albero e spot in cui impersonifica tubetti di dentifricio parlanti. Quando la sua agente, senza dare altre indicazioni, lo contatta per andare di corsa a fare "l'americano triste," si ritrova - effettivamente unico occidentale - nel ben mezzo di un finto funerale, con tanto di falso morto che a un certo punto si solleva nella bara per interagire con chi sta magnificando le sue opere in vita.
Mezzo morto lui, ma di spavento, si trova pure decurtata parte della paga per aver 'disturbato' la funzione: è appena entrato nel giro di Rental Family, letteralmente "Famiglie a noleggio", ovvero una società che mette i propri attori a disposizione di chi, per le ragioni più disparate, ha bisogno di qualcuno che ricopra qualche ruolo all'interno della vita reale propria o di qualcun altro.

Aziende di questo tipo in Giappone ne esistono a centinaia, e commissionano le cose più disparate. Se la ragione principale per la quale ciò accade si può ipotizzare sia la sfiducia nella psicoterapia, altro fattore determinante è senz'altro una solitudine diffusa. Solitudine che è uno dei tratti distintivi del protagonista Philip (interpretato da Brendan Fraser), che, oltre che per sbarcare il lunario, si appassiona al nuovo lavoro proprio perché gli permette di entrare in connessione con gli altri, spesso persone sole quanto lui.

Diretto da Hikari, Rental Family procede con passo più o meno spedito, arrivando al fulcro della storia quando Philip è chiamato a fingersi il padre di una bambina ignara (il cui vero padre è sparito) allo scopo di permetterle di superare il test di ammissione in una scuola importante (per poi sparire a sua volta), e al tempo stesso ad inventarsi giornalista e biografo per restituire importanza ad vecchio attore - anche lui ignaro - che si sente caduto nell'oblio.
Tutto è carino e simpatico, e di tanto in tanto ci scappa anche la risata o il momento intrinsecamente emozionante, ma manca un discorso d'insieme che trasformi una sequela di scene in un film, perché nei momenti cruciali non c'è mai un conflitto degno di nota, non c'è pathos né sostanza: piatto, scontato, senza nerbo.

VOTO: ***

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

La vita va così

  • Commedia
  • Italia
  • durata 120'

Regia di Riccardo Milani

Con Diego Abatantuono, Virginia Raffaele, Aldo Baglio, Ignazio Giuseppe Loi, Geppi Cucciari

La vita va così

Uscito in Italia: 23 ott 2025

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2025 - GRAND PUBLIC - FILM D'APERTURA
«Nella vita non contano i passi che fai, ma le impronte che lasci». Questo epitaffio, scritto rigorosamente in sardo, campeggia (stando al film) sulla lapide di Ovidio Marras, morto a 93 anni nel 2024 dopo esser diventato un simbolo per aver resistito per decenni alle lusinghe del dio denaro, rifiutandosi ripetutamente di vendere ad un colosso immobiliare del nord la casa che, prima di essere sua, era stata dei suoi avi per generazioni.

In La vita va così di Riccardo Milani, Ovidio Marras diventa Efisio Mulas (interpretato da un ex pastore sardo di nome Giuseppe Ignazio Loi), e la sua battaglia viene mostrata da quando, nel 2000, l'immobiliarista Diego Abatantuono gli spedisce a domicilio, a Bellesamanna, il fidato capocantiere Aldo Baglio con la sua squadra, vettore di un'offerta che di solito a quelle latitudini non viene mai rifiutata: 150 milioni di lire pagati sull'unghia per permettergli di prendere possesso della sua terra, in riva al mare, e costruirci un resort di lusso. Il "no" del pastore arriva corredato da spiegazioni in lingua madre prontamente tradotte dalla figlia Virginia Raffaele, che subito gli si pianta accanto come fedele scudiera. Quello che in altri casi si definirebbe trattativa, in questo è un vero e proprio accerchiamento, che la ditta porta avanti per anni, coinvolgendo il vicinato, sedotto dall'indotto e dai posti di lavoro offerti (in ruoli ovviamente di bassa manovalanza), e aumentando sempre più l'offerta.

Milani ha a cuore il personaggio, la sua storia e soprattutto la sua battaglia in difesa delle proprie radici, ma dietro le buone intenzioni c'è un equivoco di fondo su quale sia il percorso da prendere, laddove una commedia mai così indecisa (con Virginia Raffaele troppo forzatamente imbronciata, e con Aldo Baglio che fatica ad uscire dal registro 'comico') prova a travestirsi da cinema civile ma mancando di sostanza e di coraggio, e limitandosi a qualche svolazzo moraleggiante buono per tutte le stagioni. Troppo poco per accontentarsi.

VOTO: **½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Illusione

  • Drammatico
  • Italia
  • durata 110'

Regia di Francesca Archibugi

Con Jasmine Trinca, Michele Riondino, Angelina Andrei, Vittoria Puccini, Francesca Reggiani

Illusione

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2025 - GRAND PUBLIC
Quando il vicequestore Pizzirò viene chiamato a raggiungere una pattuglia nei pressi di un fosso alla periferia di Perugia per il ritrovamento del corpo di una ragazza, è lui ad accorgersi, da un movimento, che in quel corpo c'è ancora anima. Ciò che a lui sfugge, ma che nota subito la PM Cristina, giunta anche lei sul posto, è la qualità della merce che ha indosso, trattandosi di un abito di alta moda dal valore di migliaia di euro.
Figlia di madre rumena e padre moldavo, la ragazza si chiama Rosa Lazar ed ha solo quindici anni. Affidata ad una struttura protetta comunale diretta da Suor Lucia, riceve qui subito la visita della stessa PM e dello psicologo dei servizi sociali Stefano: mentre la prima, con il suo fare aggressivo e inquisitorio, porta la ragazza a chiudersi, il secondo sembra avere la sensibilità e gli strumenti per farla aprire e parlare. In due ruoli diversi ma dai contorni ben definiti, i due professionisti iniziano a lavorare di concerto per dare una definizione al caso, e per inquadrare in maniera chiara la personalità della giovane.

Di tanto in tanto, in trafiletti sui quotidiani locali, escono notizie di cronaca singolari, inquietanti o curiose che lì restano per poi finire dimenticate: una di queste, anni fa, fu il ritrovamento in umbria di una ragazza che si pensava morta e invece si scoprì essere viva. Nasce così l'idea per il soggetto di Illusione, che Francesca Archibugi dirige dopo aver sceneggiato con Francesco Piccolo e Laura Paolucci.
Lontano dal voler essere definito un film a tema, Illusione si muove tra Perugia e mezza Europa parlando di tratta delle donne e di violenza di genere, ma con l'intenzione di tenere il focus sulle dinamiche tra i personaggi, quindi concentrandosi sul rapporto
tra la giovane (l'espressiva Angelina Andrei) e lo psicologo (un convincente Michele Riondino), lei soggetto ingenuo dal quadro psichico complesso fatto di rimozioni e deliri, lui persona a sua volta fragile e per questo recettiva e capace di connettersi sulle stesse frequenze disturbate.

L'ambiguità attraverso cui questa interconnessione tra un uomo maturo e una minorenne di bell'aspetto viene interpretata da chi gli sta intorno, tende a monipolizzare il resto del film con buona pace delle altre tematiche, prova a costruirlo poco a poco, per mezzo di un lavoro accorto anche sui personaggi secondari, su tutti quello della moglie di lui, psicologa anch'essa, interpretata da una Vittoria Puccini dal piglio deciso.
Ma la mancanza di un reale approfondimento del versante politico / criminali della storia, che potrebbe di per sé essere un carattere più che un difetto, toglie alla lunga al racconto profondità e respiro, con l'aggravante di voler far sfociare il tutto in un finale frettoloso e superficiale, che non si accontenta più dell'attenzione al particolare delle relazioni interpersonali tra i protagonisti, ma pretende di rendere plausibile la chiusura in quattro e quattr'otto di un caso politico internazionale che avrebbe avuto più senso - a quel punto - lasciare aperto o tenere ai margini fino ai titoli di coda.

VOTO: **½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

If I Had Legs I'd Kick You

  • Commedia
  • USA
  • durata 113'

Titolo originale If I Had Legs I'd Kick You

Regia di Mary Bronstein

Con Rose Byrne, Danielle MacDonald, Conan O'Brien, Josh Pais, Daniel Zolghadri, Ivy Wolk

If I Had Legs I'd Kick You

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2025 - BEST OF 2025
Quando il soffitto della sua camera da letto crolla, generando una voragine di un metro di raggio, Linda è costretta a trasferirsi in un vicino hotel, con il marito marinaio lontano per due mesi, e con sé una figlia in età scolare affetta da una non meglio precisata malattia che la costringe a vivere nutrita da una peg e attaccata la notte ad un macchinario da monitorare di continuo.
If I Had Legs I'll Kill You sembra calarsi in un momento casuale di un'esistenza logorante, precipitandosi, da subito, in un vortice di situazioni, suggestioni e avvenimenti che vogliono riflettere il disordine e l'ansia di una madre travolta da una responsabilità impossibile da sostenere. Perché al peso incessante della figlia da accudire in solitudine, si aggiunge quello del contesto lavorativo, che è quello in uno studio di psicoterapia nel quale da un lato ha una paziente che la mette in seria difficoltà, anch'essa madre, ossessionata dalla paura di nuocere alla figlia poppante, e da un altro è lei stessa in analisi da un collega che porta allo sfinimento con comportamenti sempre più singolari perché dettati da una frustrazione sempre più invalidante.

Mary Bronstein, che sceneggia e dirige partendo da esperienze personali, crede probabilmente che questo tipo di premessa possa autorizzare a vomitare sullo schermo (e sullo spettatore) qualsiasi disgrazia, e abusa di primi e primissimi piani spesso ingiustificati dell'onnipresente Rose Byrne (ovviamente nel ruolo di Linda), perché il film è il suo personaggio e il suo personaggio è il film, e affinché chi lo guarda non si illuda che l'empatia (se mai ve ne fosse) possa esser dispersa altrove, tiene la sfortunata figlia sempre rigorosamente fuori campo, concedendole la telecamera solo nel finale, ottenendo però come risultato di rendere ella stessa una mera proiezione.

If I Had Legs I'll Kill You viaggia spedito a mille all'ora dall'inizio alla fine, senza un attimo di tregua, imbottendo ogni singolo minuto di quintali di parole e discorsi non necessariamente pregni di chissà quale significato, collezionando traumi e eccessi di ogni sorta e psicanalizzandoli al respiro successivo, portando all'esasperazione qualsiasi evento senza distinzione alcuna, che sia l'uscita di un criceto dalla sua scatola o un'allucinazione che fa grondare il buco del soffitto, in un accanimento sensoriale francamente insensato che diventa una convulsione lunga quasi due ore. E non c'è discorso sul peso delle aspettative che generano sensi di colpa nella figura materna che tenga, perché qualsiasi pretesa di teorizzazione affonda e si scioglie nel magma indistinto di un caos artificioso e inutile.

VOTO: **

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Eddington

  • Drammatico
  • USA
  • durata 145'

Titolo originale Eddington

Regia di Ari Aster

Con Austin Butler, Emma Stone, Pedro Pascal, Joaquin Phoenix, Luke Grimes

Eddington

Uscito in Italia: 17 ott 2025

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2025 - BEST OF 2025

Nel maggio del 2020, con il mondo in piena pandemia, lo sceriffo della contea di Sevilla, già in pessimi rapporti con l'omologo del confinante pueblo di Santa Lupe, entra in contrasto sempre più aperto con il sindaco uscente di Eddington, il paese che li comprende entrambi.
In un contesto che per garantire la sopravvivenza della specie ha portato a limitare i contatti reali tra gli esseri umani, la crescita esponenziale del web come terreno di coltura e generatore di (in)cultura ha permesso la proliferazione incontrollata e incontenibile di teorie di ogni sorta, sempre pronte a fare proseliti anche quando apertamente incompatibili con la logica e il buon senso. Con i social media ed i loro like a dettar legge e creare (l'illusione del) potere, a prevalere, più che la verità, è la versione della stessa fornita da chi ha la migliore platea, le migliori armi, o meglio ancora entrambe.

Mentre a Minneapolis la morte di George Floyd fa esplodere le proteste del movimento Black Lives Matter, a Eddington lo sceriffo Joe Cross (un Joaquin Phoenix imbolsito), conservatore e negazionista diviene presto il difensore d'ufficio - e quindi il beniamino - di coloro che per una ragione o per l'altra mal tollerano il distanziamento e le mascherine, percependo attorno alla propria figura una crescita di popolarità che lo porta a proporsi lui stesso come sindaco in contrapposizione a Ted Garcia (un Pedro Pascal in levare), ispanico e progressista, uscente ma ricandidatosi, finendo presto per scontrarsi anche con i manifestanti antirazzisti.
Ari Aster mette tanta carne al fuoco, ma la cottura risulta piuttosto disomogenea, troppo lenta nella prima parte, e a fuoco eccessivamente vivo nella seconda. Uscendo dalla metafora, Eddington è un discreto pastrocchio lungo due ore e mezza, che per un'ora abbondante gira su sé stesso sotto la forma di un western alimentato dalla paranoia, poi, per l'altrettanta ora e più che resta, deborda in un thriller che fa tanto rumore ma si ingolfa - interminabile e innocuo - alla ricerca compulsiva del colpo di scena.

VOTO: **

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

La lezione

  • Drammatico
  • Italia
  • durata 107'

Regia di Stefano Mordini

Con Matilda De Angelis, Stefano Accorsi, Marlon Joubert, Eugenio Franceschini

La lezione

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2025 - GRAND PUBLIC

Elisabetta balla da sola, con le cuffie alle orecchie, nonostante la casa di campagna che era dei genitori e dove ha deciso di trasferirsi la isoli già di suo dal resto del mondo. Si è spostata lì per subaffittare ai turisti, giunti per la Barcolana, l'appartamento che ha a Trieste città, e con quell'introito rimpinguare un conto in banca sempre in rosso.
Avvocatessa giovane e brillante, tende a scegliersi i clienti in maniera molto selettiva: poco persuasa dall'idea di dover lavorare per un ex compagno di liceo che l'ha contattata, promettendole una paga doppia, per ripulirsi l'immagine all'interno di un'azienda che ha a che fare con i fondi pubblici, ha dubbi anche sul ritorno di un suo recente successo, un professore che, dopo esser stato assolto da un'accusa di stupro, intende far causa all'università per mobbing perché dopo il reintegro non gli permetterebbe di lavorare sereno, adducendo però solo sensazioni e nessuna prova certa. Ad alimentare il suo crescente stato di inquietudine, c'è la percezione di essere seguita, con elementi che la portano a sospettare che il suo ex, condannato per stalking nei suoi confronti e fuori con la condizionale, sia tornato alla carica.

Uno degli errori più gravi in cui può incorrere un film che si fonda in buona parte su elementi di mistero, è il non saperlo alimentare, o il concedere indizi in maniera eccessiva rendendo la presunta sorpresa un passaggio inevitabile che va solo atteso. Ne La Lezione, il regista Stefano Mordini vorrebbe che lo spettatore empatizzasse con il sesto senso della protagonista (che ha il piglio e la grazia di Matilda De Angelis), e si facesse insospettire dai flashback che rivangano il passato di vessazioni e interrogatori subiti ad opera dell'ex (Marlon Joubert), ma lo fa dopo aver presentato un personaggio che definire ambiguo ed ossessivo è poco (il professor Stefano Accorsi), e peraltro dopo aver aperto il racconto con un incipit - una donna che in aula ritratta un'accusa di stupro dichiarando a sorpresa di esser stata consenziente - che già dava prematuramente indicazioni piuttosto chiare su dove si volesse andare a parare, e nel quale la protagonista, parte in causa in quanto integerrimo e arguto avvocato difensore dell'uomo, tutto fa meno che mangiare la foglia, come sarebbe lecito e logico.
L'atmosfera che si vuole sospesa, ma che sospesa non è, muta quando - a tanti minuti ancora dalla fine - vittima e carnefice si ritrovano chiusi nella solita casa nel bosco con scricchiolii, con il segreto di Pulcinella che continua a rimanere tale per bizzarre scelte di sceneggiatura, e con schermaglie verbali più o meno prevedibili, più o meno viste, riviste e soprattutto rivedibili.

La Lezione vorrebbe essere un film su una violenza psicologica basata su parole usate per annientare, annichilire e rendere succube, e vorrebbe muoversi a cavallo del confine che dalla realtà porta alla paranoia passando per l'immaginazione. Ma il campionario delle buone intenzioni si infrange su una sceneggiatura schematica e raffazzonata. Provano a salvare il salvabile, ma è davvero troppo poco, le buone prove dei due protagonisti, decisamente in parte e dediti alla causa.

VOTO: **

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Queens of the Dead

  • Horror
  • USA
  • durata 99'

Titolo originale Queens of the Dead

Regia di Tina Romero

Con Katy O'Brian, Riki Lindhome, Jack Haven, Shaunette Renée Wilson, Margaret Cho

Queens of the Dead

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2025 - FREESTYLE

In una New York City appena invasa dagli zombi, il sindaco (che ha la faccia di Tom Savini) si presenta in tv in fretta e furia a sostenere che «Tutti dobbiamo restare a casa, e per strada devono esserci solo i servizi essenziali: quindi le forze dell'ordine, i mezzi di soccorso, e i corrieri della pizza» (su! ridete!), toccando l'apice con la battuta successiva: «Questo non è un film di George Romero!».
Queens of the Dead, esordio sul lungo della figlia Tina, ha questo senso dell'umorismo qui. Che di per sé avrebbe senso, se elaborato e strutturato con coerenza (in fondo c'è chi ci hanno costruito una carriera). Coerenza che manca però del tutto in un'opera che l'autrice definisce un mash-up tra generi e stili, ma che più che altro appare come un guazzabuglio ripetitivo e poco interessante, che non sa muoversi tra i toni, e di conseguenza non fa ridere né tantomeno spaventa.

E se cotanto cognome, inevitabilmente, induce ad un confronto con l'originale, appare ancora più assurda, oltre che anacronistica, la scelta di cercare di rinverdire i fasti di un filone che in quella forma, e con quella firma, aveva già dato tutto. A oltre mezzo secolo dal primo e a sedici dall'ultimo zombi movie del babbo (morto nel 2017), questo sgrammaticato Queens of the Dead sembra più una satira malriuscita che un omaggio o una evoluzione (non richiesta), e si limita, come se ciò bastasse, a cercare di ricollocare la serie aggiornandola al 2025, ovvero ai tempi della genderfluidity, dei social network e dei monopattini, sacrificando ogni tipo di discorso politico o sociologico sull'altare di una presunta leggerezza che nei fatti è solo superficialità, caciara, vuoto.

VOTO: *½

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