Regia di Stanley Kubrick vedi scheda film
Il grottesco, in senso profondo, è una forma espressiva che nasce dall’unione di opposti inconciliabili: il comico e il tragico, il sublime e il ridicolo, il familiare e il mostruoso. Non è semplice deformazione caricaturale, ma un modo per rivelare verità profonde attraverso strumenti come l’eccesso e la contraddizione.
Nel grottesco le forme tradizionali si spezzano o si esasperano fino a perdere coerenza (volti, corpi, ambienti); l'ordine viene violato, ma non per puro caos: per mostrare che l'ordine stesso era già precario o ipocrita. Lo spettatore ride e si inquieta nello stesso momento, perché ciò che è grottesco è spesso ridicolo e al tempo stesso spaventoso.
Nel cinema di Kubrick l'elemento grottesco non è mai una semplice caricatura o deformazione, ma una lente attraverso cui esplorare le contraddizioni più profonde dell'essere umano e delle strutture sociali. In Barry Lyndon, ad esempio, l'eccesso formale — i movimenti lenti della macchina da presa, la composizione delle inquadrature, la recitazione distaccata — non servono solo a creare distanza, ma a rivelare la fragilità e l'artificiosità delle convenzioni dell'aristocrazia del XVIII secolo.
In questo senso, il grottesco kubrickiano è una forma di verità: svela l'assurdo dietro l'apparente ordine, l'ipocrisia dietro l'eleganza. È un'estetica dell'eccesso controllato, che svela le maschere sociali e i rituali vuoti. Non si tratta di incoerenza, ma di una strategia narrativa e visiva coerente con la sua visione del mondo: un luogo dove la bellezza e l'orrore, il sublime e il ridicolo convivono e si riflettono a vicenda.
Barry Lyndon (1975): Ryan O'Neal, Marisa Berenson
Il grottesco, spesso, serve a spogliare il mondo della sua facciata, mostrandone i meccanismi sottostanti: l'ottusità del potere, l'assurdità delle convenzioni, la violenza insita nel controllo e nella forma.
Nel cinema di Kubrick è sempre l'occhio della macchina da presa a compiere queste traiettorie.
Prendiamo in esame uno degli elementi formali più ricorrenti nei suoi film: lo zoom out. In Barry Lyndon se ne osserva un uso sistematico e significativo. Kubrick lo adotta non solo per finalità estetiche, ma per strutturare una dialettica tra campo e fuori campo che rispecchia la condizione esistenziale dei personaggi.
Spesso parte da un primo piano per poi allargare l'inquadratura, rivelando gradualmente l'ambiente circostante. Questo movimento trasforma l'immagine in una sorta di quadro vivente, all'interno del quale i personaggi appaiono statici, quasi imbalsamati, congelati in un istante di tempo, sottolineando la loro prigionia in un'epoca, quella dei Lumi, che nel film appare tutt'altro che illuminata.
L'uso dello zoom, anziché del carrello, accentua la sensazione di distacco: l'immagine si appiattisce, i personaggi sembrano intrappolati in una composizione pittorica. Un approccio che evidenzia la tensione tra il filmico (movimento di macchina) e il profilmico (elementi in scena), con il primo dominante a rivelare la costruzione artificiale del mondo rappresentato.
Attraverso la bellezza formale, Kubrick svela l'artificiosità e la fragilità delle strutture sociali, invitando lo spettatore a una contemplazione critica della realtà rappresentata.
Barry Lyndon (1975): scena
Barry Lyndon, coerentemente con altri capolavori del regista, vive di un paradosso formale e percettivo. Da un lato c'è un'adesione maniacale al dettaglio storico: costumi, illuminazione naturale (con le famose ottiche spaziali utilizzate per girare in interni a lume di candela), ambienti, posture. Dall'altro, però, c'è un rigido controllo formale che congela quel realismo in immagini ipercomposte, pittoriche e volutamente distaccate.
Questo crea un cortocircuito tra mimesi e dispositivo: sembra di essere nel Settecento, ma lo si percepisce come finto. Kubrick ci ricorda costantemente che stiamo guardando un film. L'occhio della macchina da presa è il vero protagonista. Non c'è illusione, non c'è immedesimazione ingenua. C'è uno sguardo – freddo, geometrico, lucido – che filtra tutto.
Si osserva la storia da fuori, come un entomologo che guarda un insetto sotto vetro. E in questo gesto si svela il senso più profondo del cinema kubrickiano: la bellezza del mondo rappresentato è solo superficie, dietro c'è il vuoto, l'alienazione, la meccanicità sociale, la violenza brutale.
Ed è proprio nel mostrare l'artificio che Kubrick raggiunge una forma superiore di verità: la verità che ogni rappresentazione è costruzione, e che la storia, come il cinema, è sempre frutto di una messa in scena.
Barry Lyndon (1975): scena
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