Regia di William Friedkin vedi scheda film
Protagonista della Nuova Hollywood degli anni 70, William Friedkin nasce a Chicago da una famiglia di origini ucraine, la sua infanzia le trascorre tra ristrettezze economiche che lo costringono anzitempo ad abbandonare gli studi e a trovare lavoro presso una televisione locale come apprendista.
Autore de Il braccio violento della legge (1971) e L’esorcista (1973), che rinnovarono i generi thriller e horror e fautore di un cinema metropolitano in cui i confini tra Bene e Male si sovrappongono, confondendosi in una zona grigia dove violenza e sopraffazione sono una costante quotidiana.

Ma a partire dall’ambizioso ma poco fortunato Sorcerer (Il salario della paura, 1978), remake di Vite vendute di Henri-Georges Clouzot, per Friedkin iniziarono i problemi.
Il budget del film fu di 22 milioni di dollari, ne incassò nel mondo appena 12 di cui appena 5 in America, ovvero un disastro totale guadagnandosi l’etichetta di regista ambizioso ma anche economicamente “pericoloso”.
Con il successivo Cruising (1980), oggi ritenuto uno dei maggiori picchi della sua arte cinematografica, le cose andarono anche peggio, stroncato quasi unanimemente dalla critica statunitense e al centro di enormi polemiche tra i membri della comunità LGBT.
Anche il successivo L’affare del secolo (1983), nonostante un Chevy Chase reduce dal SNL e sulla cresta dell’onda, ebbe un pessimo riscontro commerciale.
A Hollywood ormai è bruciato, tanto che per il suo successivo lavoro ottenne appena 6 milioni di dollari di budget messogli a disposizione dalla Metro-Goldwyn-Mayer per l’adattamento di un romanzo scritto da Gerry Petievich e intitolato To Live and Die in L.A.

Petievich per diciannove anni fece parte del Secret Service statunitense, un’agenzia federale le cui uniche finalità sono la protezione del Presidente degli Stati Uniti e dei membri del governo federale e la lotta contro lo spaccio di denaro falso, e ha preso parte di quell’esperienza, l’ha romanzata e ha dato alle stampe un libro che parla principalmente della lotta, sempre più personale, quasi ideologica, tra il protagonista Richard Chance, agente del Secret Service, e il falsario Eric Masters.
Friedkin legge il libro e decide di trarne un film, un po' come fece per The French Connection, il libro di Robin Moore del 1969 che trasformò nel suo Il Braccio Violento della Legge.
Secondo le cronache dell’epoca, nel 1985 Mann citò in giudizio Friedkin per plagio, accusandolo di aver copiato per il suo film il concept della puntata pilota di Miami Vice.
Il tutto si concluse con un’archiviazione e, paradossalmente, tra Mann e Friedkin nacque una sincera amicizia.
Con To Live and Die in L.A (1985), in Italiano Vivere e morire a Los Angeles, Friedkin ritorna alle origini e a un genere a lui più congeniale, con una produzione indipendente e, per tagliare i costi, decide di non disporre né di professionisti iscritti al sindacato (il DoP Robby Müller ad esempio) né di grossi nomi come interpreti principali (le suggestioni Jeff Bridges, Richard Gere ma soprattutto Harrison Ford nel ruolo principale restarono tali) affidandosi invece ad emergenti e/o giovani in rampa di lancio.
Avere Petievich come consulente gli permise inoltre di avere anche un bel po’ di veri poliziotti e agenti della Security sul set ma a Friedkin mancavano ancora i ruoli di protagonisti.

Il primo nome provinato fu quello di Gary Sinise che però non corrispondeva alle attese di Friedkin, fu però lo stesso Sinise ha consigliargli il suo concittadino William Petersen.
L’attore trentaduenne di Evanston, area metropolitana a nord di Chicago, aveva da poco esordito con una piccolissima parte in Thief – Strade violente di Michael Mann, e dopo averlo visto recitare a teatro il ruolo di Kovalski in Un tram che si chiama Desiderio ottenne subito un provino: bastarono poche pagine di sceneggiatura e Friedkin aveva trovato il suo protagonista principale.
Inerzia non troppo dissimile fu per la scelta di John Pankow.
Fu Petersen, infatti, a consigliarlo per il ruolo di Vukovich, avendo lavorato insieme in numerose occasioni a Chicago, e Friedkin necessitava anche di una vera chimica relazionale tra gli interpreti della coppia, e loro ce l’avevano.

Il cast comprendeva poi l'ottimo Willem Dafoe, Darlanne Fluegel, Dean Stockwell, Steve James, Debra Feuer, Michael Greene, Robert Downey Sr., un giovanissimo John Turturro e Christopher Allport.
Come direttore della fotografia scelse Robby Müller, già al lavoro negli States ma che aveva lavorato in Europa soprattutto a fianco di Wim Wenders e fu proprio il suo lavoro in Paris, Texas a convincerlo della sua scelta.
Friedkin assunse anche, come consulenti tecnici, due autentici falsari, degli ex detenuti arrestati per contraffazione di denaro, con il risultato che le banconote prodotte da Eric Masters erano di qualità talmente eccellente che, nonostante gli sforzi della troupe, alcune di queste entrarono davvero in circolazione nella Contea di Los Angeles e ci vollero diversi mesi prima che l’FBI riuscisse a recuperarle e a toglierle dal mercato.
A inquadrare poi il film di prepotenza negli anni Ottanta ci pensano i Wang Chung, band new wave britannica scoperti da Friedkin grazie a Points on the Curve, disco del 1983, rimanendo stregato dal loro suono.
Prima ancora di iniziare a girare Friedkin diede loro la sceneggiatura e gli chiese di usarla come fonte di ispirazione, prese anche due canzoni dal loro disco precedente, Wait e la famosissima Dance Hall Days e le inserì nella colonna sonora.

Vivere e Morire a Los Angeles è una specie di costola allucinata de Il Braccio Violento della Legge, ma sposta lo sguardo dal traffico di droga alla falsificazione di denaro, rielaborando nuovamente i topoi del thriller e continuando la sua personale analisi della società americana ma al contempo è anche il suo opposto, e il look ruvido e sporco della New York degli anni Settanta viene sostituito dallo stile trasgressivo e unisex della Los Angeles degli anni Ottanta per opera della scenografa Lily Kilvert.
Friedkin rimescola le carte, utilizza qui uno stile molto più allusivo, quasi metaforico, che sicuramente è figlio della cultura del periodo, dalla video art ai videogiochi, e ogni tanto, inaspettatamente, ci sono immagini totalmente fuori contesto o fuori continuity, come dei flash o delle visioni del protagonista.

Il tema esplicito di Vivere e morire a Los Angeles è il potere dei soldi come elemento che determina i destini degli uomini e, di conseguenza, anche l’intera società e il modo nel quale agiscono.
I soldi sono inquadrati in modo ossessivo, anche nel dettaglio, più volte durante la pellicola e mai come in questa occasione il denaro assurge a divinità distruttrice e falsificatrice che, come un virus, provoca la morte di chiunque venga plagiato dal suo potere corruttivo.
La stessa sfida tra il falsario e il poliziotto sconfina dagli stereotipi del genere trasformandosi in un’analisi spietata (e fortemente pessimistica) descrivendone l'immoralità di ogni loro singola azione, mentre il confine tra bene e male, sempre che sia mai esistito, si fa sempre più labile fino a scomparire del tutto.
Nessuno in Vivere e morire a Los Angeles è innocente, ognuno, per perseguire i propri scopi, è disposto a tradire sentimenti, giustizia e morale, non esiste confine tra Bene e Male perché non c’è più un confine morale, tutti agiscono per sopraffare l’altro in una gara a chi è il più forte, i sentiment spesso sono usati come arma, di controllo e di intimidazione, e l’unica emozione che conta e l’adrenalinica ricerca dell’emozione più estrema.
Alla distorsione dell'etica professionale, nonché sociale e individuale, fa da contrasto la contraffazione della realtà e della conseguente messa in scena, d'altronde Friedkin ha iniziato la carriera come documentarista e lo stesso regista ha più volte affermato che la realtà non può essere ripresa perché già lo sguardo della macchina da presa compie una limitazione data dall’inquadratura che non può riprendere tutto ma soltanto una sua piccolissima parte, e già questo è sufficiente per mistificare quello che si sta osservando.

Un’ulteriore curiosità riguarda poi le scene tagliate.
Nell’edizione extra del DVD scopriamo anche di un finale alternativo che avrebbe completamente ribaltato l’inerzia del racconto portandolo verso terreni narrativi meno nichilistici e molto più canonici. In questo finale l’Agente Chance sopravvive al climax finale, il colpo di fucile non gli arriva in piena faccia ma nello stomaco così da gettare, ipoteticamente, le basi per un potenziale (e economicamente redditizio) sequel alla maniera proprio de Il braccio violento della legge 2.
Friedkin rivelò come la MGM spinse molto in quella direzione, pregarono Friedkin di usarlo ma lui si oppose con tutte le forze, credeva infatti che, se Chance fosse sopravvissuto, il film avrebbe perso larga parte del suo senso: «Molti dei miei film hanno a che fare con il mistero del fato, del proprio destino. Richard sfidava il destino ad ogni occasione e sembrava giusto, coerente che, a un certo punto di Vivere e morire a Los Angeles, Chance perdesse quella sfida.»

Vivere e Morire a Los Angeles è un film incredibile. Una riflessione sulla falsità e una storia in cui tutto è contraffatto, non soltanto i soldi che stampa Masters ma anche i sentimenti che provano i protagonisti o le motivazioni che li animano, per un capolavoro che, come il suo illustre predecessore, riscrive le regole di un genere regalandoci, insieme al Manhunter di Michael Mann (anche questo, incredibilmente, con William Petersen come protagonista), il poliziesco definitivo degli anni Ottanta.
Purtroppo, quando il film esce, nonostante le recensioni siano piuttosto incoraggianti, il grande pubblico ne diserta le sale, anche perché la MGM non fa quasi nulla per sostenere il film (l’allora proprietario Ted Turner è troppo impegnato a vendere la sua grande idea di colorare i grandi classici hollywoodiani in B/N per dedicarsi anche alla promozione delle nuove pellicole) e poco dopo la sua uscita del film si perdono presto le tracce.
E contemporaneamente il telefono di William Friedkin, purtroppo, smise magicamente di suonare.
VOTO: 8,5

P.c. Un paio d’anni dopo il rilascio in sala, nei suoi primi passaggi in televisione, le emittenti statunitensi trasmisero una versione ridotta e raffazzonata di Vivere e morire a Los Angeles caratterizzata da una specifica particolarità: a inizio pellicola e nei titoli di coda non si vedeva mai il nome di William Friedkin ma quello di tale Jackson Fourre.
Non è dato sapere se fosse stata una specie di versione friedkiniana di Alan Smithee avallata dallo stesso Friedkin, forse obbligato per contratto, o semplicemente un raggiro ad opera della pirateria old-fashioned.
In ogni caso tutte le copie della versione di Fourre sono andate, fortunatamente, perdute.
Oltre il danno, la beffa.
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