Regia di Joon-ho Bong vedi scheda film
Bong non sbaglia un film. Rivisto a lunga distanza dall’ultima volta, quel che all’epoca era parso il più debole dei suoi progetti (doveva comunque ancora uscire Okja…) si dimostra invece un’opera di livello, ora come ora resistente alla prova del tempo (anzi, più ne passa e più risulta sempre più attuale) e, appunto, della ripetuta visione.
Dopo averlo centrato con Memories of Murder, sfiorato con The Host e Madre e prima di centrarlo nuovamente con Parasite, il grande regista coreano qui costeggia per l’ennesima volta il capolavoro. Ci arriva ad un passo: se non lo è un capolavoro, il film, è soltanto per via di qualche momento un po’ troppo “urlato” (come quando si sparano tra i vagoni) che però si perdona facilmente data la qualità dell’insieme.
Snowpiercer (2013): scena
Dal lato prettamente tecnico, del resto, il film è pressoché inattaccabile: grandi trovate scenografiche; controllo registico da maestro stante la molteplicità dei registri – tra sprazzi di violenza grandguignolesca e momenti distesi, sornione puntate satiriche (vedi la scena del sushi) e aperture simboliche o fin sognanti, stranianti (il vagone acquario dove si svolge la scena appena citata); recitazione di norma ottima (come di consueto, menzione d’onore per Song, ma da non sottovalutare le prove di Harris e Hurt, mentre perfino Evans par più espressivo del solito); fotografia perfettamente accordata ai cambi di registro, dal tono più cupo e desaturato dei “livelli inferiori” alle tonalità più accese o cariche dei “piani alti” (come nei due vagoni kitsch in cui ci si scatena per la festa del nuovo anno o ci si sballa tra comode poltrone).
Oltre a ciò, la sostanza. Snowpiercer è una palese allegoria della società odierna (simile, perlomeno sotto il profilo della divisione in classi, alla gran parte di quelle esistite e conosciute), un film che, celandosi dietro la superficie evidente del prodotto d’intrattenimento, come ogni opera di genere che si rispetti riesce a far passare riflessioni inusitate rispetto alla media d’ordinaria amministrazione di Hollywood (e, difatti, c’è voluto un regista sudcoreano a scuotere un poco dalle fondamenta la placida acquiescenza della pseudo-fantascienza spacciata dalle alte “sfere” di Los Angeles e dintorni).
Snowpiercer (2013): Chris Evans
Prenderla troppo alla lettera, simile allegoria (perdendosi in critiche del genere di un “eh, maaa come dovrebbero fare a sopravvivere nel freddo glaciale?”), è un errore, va da sé. Il treno in moto perpetuo che però percorre sempre lo stesso identico tracciato, ancora e ancora, girando in tondo, in eterno, è una palese metafora della presente condizione del mondo.
Qualsivoglia sistema, per mantenere la propria egemonia, non richiede semplicemente una leadership e dei fedeli accoliti, ma deve riuscire a traslarsi pure su di un piano più profondo – sovrastrutturale – andando ad influenzare, meglio plasmare, fin le essenze più intime delle persone (comprese quelle al vertice), finendo per informare più d’ogni altra cosa le loro idee in merito a ciò che ha da ritenersi, o meno, pensabile, creabile.
L’idea dell’equilibrio, la necessità del suo mantenimento, i sacrifici che ne conseguono (a sobbarcarsi i quali, naturalmente, sono sempre – e solo – quelli relegati negli strati più bassi della gerarchia sociale), l’ineluttabilità di una data organizzazione, la sicurezza rispetto a ciò che deve essere fatto e la fermezza nel metterlo poi in pratica, sono tutte visioni imbevute di quel realismo angusto che produce ristrettezza di vedute, rigidamente confinate all’interno di ciò che il sistema stesso, generatore di tale realismo, è in grado di comprendere.
Snowpiercer (2013): Tilda Swinton, Chris Evans, Luke Pasqualino, Ko Ah-sung, Kang-ho Song
La sequenza con la maestra e gli allievi è, ovvio, emblematica. Anche qualora non vi sia totale annullamento del pensiero (in una sorta di realizzazione dell’incubo orwelliano neolinguistico) v’è comunque più o meno palese indottrinamento, nutrimento di un pensiero “semi-critico” pregiudicato alla radice, appunto, dall’impossibilità di concepire la critica al sistema in sé, ma al massimo ad alcuni suoi epifenomeni mai ricondotti, tuttavia, alla loro radice generale e di cui si può solo pervenire a ideare false, inutili o fin nocive, soluzioni.
Si deve, invece, cercare di fuoriuscire da questa logica circolare, rompere la matrice, pensare l’impensabile, concepire l’inconcepibile. L’alternativa può giungere ad esistere solo se prima la s’immagina. Non vi sono certezze, ma non si deve lasciarsi ingannare dal finto realismo del “non ci sono alternative, non v’è alcun’altra possibilità, alcun’altra società che non preveda eguali divisioni”. Bisogna osare.
D’altronde, un sistema che per “funzionare” abbisogni di riprodurre incessantemente gerarchie, diseguaglianze dilanianti, bestiale sfruttamento, odii inconciliabili, forse non è il più sensato e razionale, il più auspicabile e utile, il non plus ultra da salvaguardare ad ogni costo. Il fatto, però, che precedenti rivolte siano amaramente fallite diviene, agli occhi di chi è addentro alla logica di sistema, evidenza non soltanto della solidità del sistema stesso ma finanche della sua giustezza (di nuovo, la sequenza chiave è quella della maestra alle prese con la questione dei “Sette congelati”).
Ma, dalla prospettiva invece di chi vorrebbe rompere con l’ordine attuale, l’esistenza di tali fallimenti pregressi non deve farsi motivo di scoramento, è di cruciale importanza l’evitare di lasciarsi abbattere senza rimedio. Per tornare all’esempio sopra: l’uscire nel freddo artico rappresenta proprio quell’andare incontro all’ignoto, quel rompere gli schemi, l’arrivare a pensare oltre, oltre l’ortodossia, oltre ciò che viene – in tal momento – ritenuto ineluttabile. E’ necessario osare. Farlo, possibilmente – fuor di finzione – prima che sia troppo tardi.
Snowpiercer (2013): Tilda Swinton
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