Regia di Sidney Lumet vedi scheda film
Un esempio di cinema essenziale e potente, dove regia, sceneggiatura e interpretazioni creano un legal drama intramontabile.
La parola ai giurati (1956): locandina
La parola ai giurati (1957) è un legal drama che mostra il cinema nella sua forma più pura. Ambientato quasi interamente in una stanza, il film cattura lo spettatore con tensione psicologica e costruzione narrativa magistrale. Sidney Lumet, al debutto alla regia cinematografica, dimostra subito un talento straordinario: dirige gesti, silenzi e dialoghi con precisione chirurgica, trasformando uno spazio chiuso in un’arena di conflitti e riflessioni. La scelta di numerare i giurati rende la vicenda universale: uomini che incarnano diversi aspetti della società, ciascuno con le proprie convinzioni, fragilità e preconcetti.
Dodici giurati devono decidere se un ragazzo ispanico sia colpevole di aver ucciso il padre, con la pena di morte in caso di condanna. Dopo un primo voto unanime, solo il giurato #8/Davis (Henry Fonda) nutre dubbi e chiede di analizzare con attenzione le prove. Il giurato #3 (Lee J. Cobb), segnato da rabbia personale e pregiudizi, affronta ogni obiezione con ostinazione; il giurato #4 (E.G. Marshall) rappresenta la logica e il distacco razionale; il giurato #5 (Jack Klugman), cresciuto in un ambiente simile a quello del ragazzo accusato, porta empatia ed esperienza di vita; il giurato #9/McCardle (Joseph Sweeney) osserva dettagli trascurati dagli altri. Ad eccezione dei giurati #8 e #9, che rivelano i rispettivi nomi alla fine, nessun nome è usato nel film: l’imputato è chiamato “il ragazzo”, i testimoni “il vecchio” e “la donna dall’altra parte della strada”, scelta che rende la vicenda universale e senza tempo. La discussione mostra quanto sia grave decidere della vita di un ragazzo basandosi su pregiudizi, superficialità o emozioni personali.

Lumet sfrutta lo spazio limitato trasformandolo in un vero campo di tensione. All’inizio i giurati appaiono più distanti, ripresi con inquadrature ampie che danno respiro e sottolineano l’apparente freddezza del dibattito; man mano che la discussione avanza, la macchina da presa stringe progressivamente sui volti, riducendo lo spazio e aumentando il senso di oppressione. L’atmosfera diventa sempre più claustrofobica, mentre piccoli dettagli – uno sguardo, un silenzio, un gesto improvviso – si caricano di significato e mantengono viva l’attenzione. Lumet dosa con sapienza i tempi del racconto, alternando quiete e improvvise esplosioni di conflitto, portando lo spettatore dentro lo stesso spazio soffocante vissuto dai protagonisti.

Reginald Rose costruisce dialoghi precisi, realistici e penetranti. La sceneggiatura, originariamente scritta per la televisione nel 1954 con il titolo Twelve Angry Men, racconta la storia di un componente di una giuria che, basandosi su un “ragionevole dubbio”, cerca di persuadere gli altri undici membri ad assolvere un ragazzo diciottenne accusato di parricidio. Ogni battuta rivela caratteri, conflitti e pregiudizi senza mai cadere nel didascalico. La sceneggiatura cresce in tensione attraverso argomentazioni razionali, dubbi credibili e dettagli concreti, creando uno spazio di riflessione etica dove lo spettatore è costretto a confrontarsi con la propria coscienza. L’origine televisiva e teatrale del soggetto si percepisce chiaramente, ma Lumet e Rose riescono a trasportarla con naturalezza sul grande schermo.

Henry Fonda (#8/Davis) guida il gruppo con calma e integrità, incarnando il dubbio razionale e il coraggio morale. Lee J. Cobb (#3) esplora la rabbia repressa e i pregiudizi radicati, fornendo un contrappunto potente al personaggio di Fonda. E.G. Marshall (#4) porta equilibrio e razionalità, mentre Martin Balsam (#1), presidente della giuria, mantiene ordine e disciplina durante il dibattito. Jack Klugman (#5), Jack Warden (#7), George Voskovec (#11) e Joseph Sweeney (#9/McCardle) arricchiscono la dinamica con sfumature emotive, saggezza o cinismo, dimostrando come il gruppo, più che i singoli individui, renda ogni confronto intenso e credibile. La forza del film risiede nella sinergia di un cast capace di rendere viva la tensione, l’ambiguità e la complessità morale di ciascun personaggio.

Il film, prodotto da Henry Fonda e Reginald Rose, ottenne grande successo e diverse nomination agli Oscar e ai Golden Globe, tra cui miglior film, regia e attore non protagonista. Personalmente trovo ingiustificabile che un’opera così precisa e potente non abbia vinto nulla, soprattutto considerando la maestria di Lumet e la forza del cast. Nel 2007 fu inserito dall’American Film Institute all’ottantasettesimo posto dei cento migliori film americani di tutti i tempi. La versione cinematografica fu girata in soli 17 giorni con un budget di 340.000 dollari, dopo un rigoroso programma di prove. La storia ha ispirato numerosi adattamenti, dai remake televisivi del 1997 a versioni cinematografiche internazionali in Russia, India e Cina, oltre a numerosi allestimenti teatrali, fino alle recenti produzioni italiane di Alessandro Gassmann.
La parola ai giurati è una riflessione sulla responsabilità, sul coraggio di sfidare pregiudizi e sulla fragilità umana. Mostra quanto sia grave decidere del destino di un ragazzo, che rischia la sedia elettrica, solo per opinioni superficiali o preconcette. Lumet, Rose e un cast magistrale dimostrano che il cinema può scuotere e far riflettere senza scenografie o effetti speciali, lasciando lo spettatore a misurare il peso delle proprie scelte e della propria coscienza. Ancora oggi resta un punto di riferimento imprescindibile del dramma legale.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta