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La morte corre sul fiume

Regia di Charles Laughton vedi scheda film

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La recensione su La morte corre sul fiume

di Letiv88
9 stelle

Un’opera intensa e disturbante, capace di fondere tensione, simbolismo e poesia visiva, lasciando una traccia indelebile nello spettatore

La morte corre sul fiume (1955) è una favola nera, disturbante e poetica allo stesso tempo, un unicum nel cinema americano. L’unico film diretto da Charles Laughton, attore prestato per una volta alla regia, è diventato col tempo una leggenda. All’epoca fu un fallimento, ma oggi è considerato un cult per la sua potenza visiva e il modo in cui trasforma l’America profonda in un incubo morale. È un film che parla di fede e malvagità, di innocenza e corruzione, di un’umanità divisa tra il bene e il male, come le parole tatuate sulle mani del suo protagonista. Il suo fascino è ipnotico: cattura lo spettatore e non lo lascia, dall’inquietudine dei primi minuti fino al silenzio finale del fiume.

Ben Harper (Peter Graves) viene arrestato dopo una rapina finita nel sangue. Prima di morire, nasconde il bottino e confida il segreto ai figli, John (Billy Chapin) e Pearl (Sally Jane Bruce). In carcere incontra Harry Powell (Robert Mitchum), un falso predicatore con un carisma inquietante che scopre dell’esistenza del denaro e decide di impossessarsene. Dopo la morte di Ben, Powell si presenta alla porta della vedova Willa Harper (Shelley Winters), la conquista con le sue parole melliflue e la sua finta fede, e lentamente trasforma la casa in un luogo di paura. Quando la donna capisce chi ha davanti, è troppo tardi. I due bambini fuggono lungo il fiume, inseguiti da quella figura che sembra un demone vestito da santo, finché trovano rifugio da Rachel Cooper (Lillian Gish), una donna anziana che incarna la bontà e la vera spiritualità, l’unica luce capace di resistere al buio. Il film mantiene alta la tensione, e la paura dei bambini diventa la paura dello spettatore, totale e concreta.

Charles Laughton costruisce un universo visivo favolistico e terrificante. Non si limita a raccontare la storia, ma la trasforma in un incubo morale, dove ogni angolo, ogni ombra e ogni taglio di luce ha un peso simbolico. Le prospettive distorte e i contrasti netti servono a far percepire l’inquietudine dei bambini e la minaccia costante di Powell. Ci sono scene che sembrano quasi fermare il tempo, come la fuga sul fiume o la madre immersa nell’acqua, che oscillano tra sogno e incubo, portando il film oltre i limiti del thriller classico americano.

La fotografia di Stanley Cortez amplifica tutto questo: il bianco e nero non è solo cromatismo, ma strumento narrativo. I volti tagliati dalla luce, le ombre che sembrano inghiottire gli ambienti, i paesaggi allungati e distorti creano un senso di claustrofobia e tensione. Alcune scene sembrano dipinti in movimento, con una composizione che richiama il cinema espressionista tedesco e i toni fiabeschi dei film muti. Laughton e Cortez non mostrano semplicemente il male: lo fanno percepire, quasi fisicamente, rendendo ogni scena memorabile e disturbante.

La sceneggiatura, tratta dal romanzo La morte corre sul fiume (The Night of the Hunter, 1953) di Davis Grubb, è stata scritta da James Agee, con contributi significativi di Charles Laughton e del produttore Paul GregoryAgee, noto per il suo stile lirico e simbolico, ha infuso nel copione una forte carica emotiva e una struttura narrativa che richiama la tradizione fiabesca e gotica. Laughton ha apportato modifiche sostanziali al testo, adattandolo alle esigenze visive e stilistiche del film, mentre Paul Gregory ha collaborato strettamente con entrambi per realizzare una sceneggiatura fedele alla visione artistica del regista.

Il film è noto per l’uso di simboli forti e universali: il fiume rappresenta il confine tra dannazione e salvezza, il predicatore è l’incarnazione del male travestito da fede, e l’infanzia rimane l’ultimo rifugio della purezza. Questi temi emergono attraverso una narrazione che mescola thriller, horror fiaba, creando un’atmosfera unica nel panorama cinematografico americano dell’epoca. La sceneggiatura ha ricevuto elogi per la profondità emotiva e la capacità di evocare immagini potenti, contribuendo in modo decisivo al successo del film come cult.

Robert Mitchum è devastante. Il suo reverendo Powell è uno dei villain più carismatici e inquietanti del cinema americano: magnetico, insinuante, glaciale. Non serve che alzi la voce — basta il modo in cui canta inni religiosi mentre porta la morte per rendere tangibile la follia che lo divora. La sua presenza non è solo narrativa: ogni sua apparizione si fonde con le ombre e i contrasti netti della regia di Laughton, trasformando gli ambienti domestici in trappole visive e psicologiche.

Shelley Winters dà al suo personaggio una fragilità tragica, un senso di impotenza che amplifica la minaccia costante, mentre Lillian Gish rappresenta la redenzione, la calma e la forza serena della fede autentica, diventando un punto di riferimento morale tra il bene e il male che si fronteggiano nel film. I bambini, soprattutto Billy Chapin, portano la parte più vera e innocente del racconto: la loro naturalezza e le reazioni spontanee mantengono il tono favolistico, mentre la loro paura e vulnerabilità si riflettono sulle dinamiche visive, amplificando la tensione delle inquadrature, dei chiaroscuri e dei simboli della sceneggiatura. Lo spettatore percepisce ogni respiro, ogni esitazione, come se fosse immerso nello stesso incubo dei bambini, rendendo la paura concreta e immediata.

Quando uscì, il film fu un disastro commerciale. Troppo strano per l’America del 1955, troppo cupo e “fuori formato”, lontano dalle convenzioni del cinema mainstream dell’epoca. Laughton ne uscì distrutto: il fallimento personale e finanziario fu tale da convincerlo a non dirigere mai più. Col tempo, però, l’opera è stata rivalutata come uno dei vertici del cinema americano, un cult capace di coniugare favola, incubo e parabola morale.

La sua influenza è enorme: si ritrovano echi del suo stile in David Lynch, nei Coen, in Terrence Malick, e in ogni film che gioca con la linea sottile tra sogno e incubo, tra realtà e simbolo. La scena del corpo di Willa immerso nell’acqua è diventata un’icona: un’immagine che unisce bellezza, terrore e poesia visiva, testimoniando la potenza evocativa del cinema di Laughton. A sottolineare il riconoscimento tardivo ma meritato, il film è stato inserito al trentaquattresimo posto della lista AFI’s 100 Years… 100 Thrills, compilata dall’American Film Institute per raccogliere i cento film più coinvolgenti e avvincenti della storia del cinema americano.

La morte corre sul fiume è un film che ipnotizza e coinvolge più che emozionare. Ha momenti di cinema purissimo, una regia visionaria e una fotografia che rasenta la poesia. Laughton costruisce un racconto pieno di simboli e suggestioni, a tratti grandioso, a tratti freddo, ma la tensione e l’angoscia dei bambini lo rendono concreto e intenso. Tra ombre, fiumi e mani tatuate, il male e la purezza si confrontano in ogni inquadratura, rendendo la storia universale e senza tempo. È un film da guardare con rispetto e da riscoprire.

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