Regia di Ulrich Seidl vedi scheda film
La miseria del quotidiano, la realtà che implode, sprofonda in se stessa, fagocitando individualità e sentimento. Ogni gesto sembra rivelare una perdita: di senso e di identità, di umanità. Il cinema di Seidl si colloca in un territorio di confine. Il cinismo di Haneke, l'estetica geometrica di Roy Andersson e il patetismo grottesco di Kaurismaki trovano un punto d'incontro virtuoso. Ne nasce un linguaggio allo stesso tempo spietato e compassionevole, capace di osservare il degrado del reale con una lucidità chirurgica.
I personaggi messi in scena sono circondati da un alone di sfortuna perenne. Eppure nella loro fragilità emerge una forza inattesa, una dignità quasi eroica che resiste mentre il mondo intorno si fa sempre più assurdo, sempre meno umano. La disumanizzazione (già suggerita dal titolo), si manifesta attraverso la materialità brutale del lavoro, le pratiche alienanti, la riduzione degli individui a ingranaggi di un meccanismo globale di consumo e di scambio. Un mondo dove il soggetto rischia di dissolversi, inghiottito da un sistema che trasforma l'esistenza in merce. Mettere in scena questa realtà è difficile: è frantumata, instabile e sfuggente. I personaggi vengono seguiti da vicino nei loro inferni individuali, all'inseguimento degli ultimi residui di umanità, lampi di speranza fugaci che raramente si concedono. Proprio in questo inseguimento semi-documentaristico Seidl costruisce una riflessione universale sull'impossibilità di trovare una propria individualità in una società che ne nega l'espressione e la sopprime.
Sul piano visivo il film è molto rigoroso, anche se notevolmente colorato, sulla scia del realismo americano. I fermi immagine dal gusto minimalista, la simmetria delle inquadrature, la precisione clinica della composizione delle immagini. Sullo sfondo aleggia anche lo spettro di Antonioni nella dissoluzione del rapporto tra identità e spazio, dove tutto si confonde e lo spettatore viene risucchiato in un vuoto destabilizzante. Seidl amplifica questo smarrimento attraverso una messa in scena che ricerca lo shock normalizzandolo. Scene di sesso esplicito, dinamiche familiari al limite del surreale, la miseria psicologica della ragazza ucraina alla disperata ricerca di un lavoro. Tutto concorre a destabilizzare lo spettatore, mettendolo di fronte ad uno specchio: quello del reale. Nella trasposizione di queste identità perdute, nella ricerca spasmodica di una direzione, di un'autorealizzazione forse impossibile (o forse non del tutto? Come suggerirà in parte Paradise: Hope).
Nell'approccio diretto e senza filtri nei confronti del reale, Seidl è decisamente meno espressionista rispetto ad Andersson, e per certi versi molto più "neorealista", nonostante la comunanza tematica. Seidl ricerca l'espressione della realtà per come essa appare e per come viene vissuta nel quotidiano, un quotidiano sempre più (inconsapevolmente, per chi lo abita) scevro di umanità. Non c'è deformazione del reale, ma uno scandaglio impietoso, uno sguardo che rifiuta consolazioni e allegorie. Nel restituire il reale oltre la percezione soggettiva, Seidl mette in mostra il reale oggettivo attraverso una lente documentaristica, cogliendo l'impressione paradossale dell'irrealtà nella realtà. I suoi fermi immagine (visivamente evocativi, quadrati, quasi cubisti nell'intenzione) restituiscono una grammatica estetica che congela il movimento per mostrarne la verità. Il vero cinema è quindi la realtà stessa, non per come viene percepita, ma per come essa effettivamente appare oltre i filtri della percezione individuale.
Il finale precipita nel pessimismo più totale, l'ultima battuta ("morte"), cala il sipario come un sigillo nel silenzio che accompagna i titoli di coda. Poi un valzer da quattro soldi, un'ironia amara, volta a catturare il non-senso della contemporaneità, come potrebbe fare un brano dei Residents, con una vena accusatoria verso una società sempre più indifferente, dove anche la disperazione viene banalizzata, venduta e archiviata.
Seidl ricorda come la realtà sia la più fedele trasposizione di cinema. Import Export è un film che, con un decennio di anticipo, sembra aver intuito il disastro sociale, economico e umano verso cui la contemporaneità si stava già dirigendo. Con uno sguardo lucido e a suo modo compassionevole, Seidl ci ha visto lungo nel catturare il dramma dell'uomo contemporaneo, le sue identità smarrite, la sua solitudine strutturale. Un cinema che mette a nudo i nervi scoperti del presente e nel farlo ci costringe a guardare ciò che preferiremmo ignorare.
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