Regia di René Clair vedi scheda film
Un classico del giallo calibrato, costruito con precisione e con una tensione sottile, ma senza mai arrivare a sorprendere davvero lo spettatore.

Dieci piccoli indiani (titolo originale And Then There Were None, 1945) è il primo adattamento cinematografico del celebre romanzo di Agatha Christie. René Clair dirige un giallo perfettamente costruito, dove la tensione cresce gradualmente e la paranoia serpeggia in ogni sguardo. Il tono resta leggero grazie a lampi di ironia calibrata che non intaccano la precisione del meccanismo narrativo. È un film rigoroso, elegante e fedele allo spirito della Christie, pur concedendosi qualche libertà pensata per il pubblico dell’epoca.
Dieci sconosciuti vengono invitati su un’isola remota da un misterioso anfitrione. Tra loro ci sono Vera Claythorne (June Duprez), il dottor Armstrong (Walter Huston), il giudice Quinncannon (Barry Fitzgerald), Lombard alias Charles Morley (Louis Hayward), l’ex detective Blore (Roland Young), la severa Emily Brent (Judith Anderson), il generale Mandrake (C. Aubrey Smith), il vanitoso Starloff (Mischa Auer) e i domestici Rogers (Richard Haydn e Queenie Leonard). Una voce registrata li accusa di delitti rimasti impuniti. Sul tavolo, dieci statuette e una filastrocca: a ogni verso corrisponde una morte, fino al finale. L’andamento è scandito, il ritmo preciso, e in mezzo a sospetti e alleanze si fa strada una tensione costante, resa più vivace da una sottile ironia nei dialoghi.

René Clair, maestro del cinema francese dallo stile elegante e ironico, affronta il giallo con grande controllo e lucidità. L’azione è racchiusa in pochi ambienti, ma il regista riesce a trasformare quella limitazione in forza espressiva: l’isola diventa un microcosmo di sospetti, e ogni stanza un labirinto mentale. L’uso delle luci e delle ombre è essenziale, studiato per sottolineare la progressiva perdita di controllo dei personaggi.
Clair non punta mai allo spavento o al colpo di scena improvviso, ma costruisce una tensione continua, quasi impercettibile, che cresce da sé. Il montaggio fluido e la gestione dei tempi rendono il racconto scorrevole, mentre il tono ironico, tratto distintivo del regista, filtra nei momenti di dialogo e nei contrasti di gruppo, stemperando l’angoscia senza mai compromettere il senso del mistero. È una regia di equilibrio e misura, capace di dare forma a un gioco di inganni perfettamente orchestrato.

Dudley Nichols adatta il romanzo Dieci piccoli indiani di Agatha Christie con grande senso del ritmo e una notevole attenzione alla chiarezza narrativa. L’impianto rimane fedele all’opera originale, ma il finale viene modificato per attenuare il pessimismo estremo del libro e conformarsi al gusto del pubblico americano degli anni ’40.
Nichols concentra la tensione nei dialoghi, scritti con precisione e punte di ironia che rispecchiano la leggerezza controllata di Clair. La filastrocca è il vero motore del film, una presenza costante che scandisce la vicenda con crescente inquietudine. Rispetto al romanzo, la sceneggiatura riduce la complessità psicologica dei personaggi, ma guadagna in ritmo e chiarezza, rendendo ogni scena necessaria. Ne risulta un racconto lineare ma mai banale, dove la suspense si regge più sul linguaggio e sul non detto che sull’azione diretta.

Barry Fitzgerald è il vero baricentro del racconto: il suo giudice sornione, sempre un passo avanti agli altri, tiene insieme ironia e tensione con una naturalezza che cattura. Non è solo un personaggio di raccordo, ma una mente che osserva e orchestra, lasciando intuire più di quanto dica.
Walter Huston, con la sua consueta autorevolezza, dà corpo a un medico segnato dall’esperienza e dal dubbio morale, rendendo credibile ogni sfumatura del suo tormento. Louis Hayward, invece, incarna il sospetto stesso: elegante, controllato, ma con un’ombra che ne incrina il fascino.
Judith Anderson e June Duprez rompono l’omogeneità maschile con due interpretazioni complementari — una più algida e razionale, l’altra più emotiva — che aggiungono complessità al gioco psicologico. Anche i comprimari, da Mischa Auer a Roland Young, sono pedine perfettamente inserite in una scacchiera dove nessuno è casuale. È un cast corale che funziona per intesa e ritmo, più che per individualità, e questo lo rende ancora più incisivo.

Il romanzo originale, pubblicato nel 1939, portava un titolo oggi inaccettabile, Ten Little Niggers (Dieci piccoli negretti), poi cambiato in And Then There Were None. René Clair adottò la versione Ten Little Indians (Dieci piccoli indiani), titolo con cui la storia divenne nota anche in Italia. La filastrocca che accompagna la trama è rimasta uno degli elementi più iconici dell’opera: nel testo originale del romanzo il termine utilizzato era nigger (negretti), mentre nel film la canzone canta indian (indiani), in linea con il titolo scelto da Clair. In traduzione italiana, la filastrocca di Augusto Raggio recita: “Dieci poveri negretti/indiani se ne andarono a mangiar: uno fece indigestione, solo nove ne restar…”, scandendo il ritmo della storia come un metronomo della morte e guidando passo passo lo spettatore attraverso ogni evento della trama.
Le musiche sono di Mario Castelnuovo-Tedesco, compositore fiorentino costretto all’esilio negli Stati Uniti dalle leggi razziali. La sua colonna sonora accompagna con eleganza discreta, senza mai sopraffare l’immagine.
Negli anni successivi sono state realizzate diverse versioni cinematografiche del romanzo — tra cui Dieci piccoli indiani (1965) di George Pollock, Dieci piccoli indiani (1974) di Peter Collinson, l’adattamento sovietico Desyat Negrityat (1987) e la versione televisiva del 1989 — ma nessuna ha eguagliato la misura e la raffinatezza del film di Clair.

Un giallo calibrato, dove ogni elemento è pensato per sostenere la costruzione del mistero. René Clair dirige con equilibrio, modulando tempi, silenzi e sguardi per creare una tensione sottile ma costante, e al contempo inserendo tocchi di ironia che alleggeriscono senza mai spezzare il ritmo. L’isola si trasforma in un microcosmo claustrofobico, una vera scacchiera in cui ogni personaggio agisce come pedina, e ogni gesto o parola contribuisce a tessere il gioco di sospetti e inganni. La precisione della messa in scena, unita alla cura per i dettagli e al controllo dei ritmi narrativi, rende il film non solo un esercizio di stile ma anche un modello di adattamento cinematografico fedele allo spirito della Christie, capace di guidare lo spettatore attraverso la progressiva scoperta dei colpevoli fino all’epilogo.
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