Regia di Billy Wilder vedi scheda film
Debutto americano del genio esule dietro la macchina da presa (ma aveva già scritto cosucce come Ninotchka e Colpo di fulmine), Frutto proibito è una sorta di grande prova generale del wilderismo. Film più teorico di quanto voglia far credere la sua piacevole confezione d’elegante intrattenimento, è fondamentalmente giocato sull’ambiguità del suo titolo originale: The Major and the Minor, il maggiore nel senso di militare e maggiorenne e la minorenne nonché di grado inferiore. Come tutto il cinema di Wilder che verrà, la leggerezza della messinscena («how would Lubitsch do it?») stimola, mascherandola, la complessità dei temi: con quanto cinismo, quanto moralismo, quanta acidità si dipana il racconto dell’amore tra un uomo adulto (Ray Milland, primo corpo attoriale wilderiano, con lui anche nel posteriore e pluripremiato Giorni perduti) e una giovane donna che si finge ragazzina (è rimasta incastrata in un inganno iniziale per pagare di meno un biglietto per il treno: Ginger Rogers molto abile nell’equilibrio di innocenza e malizia) che avviene proprio perché lui è adulto e lei è a suoi occhi una ragazzina? Se è vero che Milland crede alla finzione di Ginger, allora il cinema classico è sempre una questione di trasparenza, di ciò che (non) si vede e ciò a cui si vuole credere. Oltretutto questa deliziosa finta farsa trova una strada anche nella consueta irrisione delle convenzioni americane (il mondo burocratico ed tronfio dei militari a tutti livelli anagrafici, compresa l’ipocrisia dei ragazzi che alternano discorsi di tattica bellica a goffi approcci sessuali) con lo scetticismo dell’europeo che può concedersi il lusso di mettere in evidenza il ridicolo, il conformismo, la simulazione dei frutti proibiti.
Frutto proibito (1942): locandina
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