Regia di Danny Philippou, Michael Philippou vedi scheda film
Divenuti famosi grazie a demenziali video su Youtube, i fratelli (gemelli) australiani Danny & Michael Philippou nel 2022 passarono dietro la macchina da presa con l’horror Talk to Me, film d’esordio divenuto nel breve tempo un piccolo cult, grazie anche al passaparola degli appassionati, oltre che un buon successo commerciale (oltre 90 milioni di incasso a fronte di un budget di appena 4).
Tre anni dopo i fratelli originari di Adelaide, Australia del sud, tornano al cinema con Bring Her Back - Torna da me, sempre per la Causeway Film (che collabora con i Fratelli Philippou fin dai tempi di Babadook di Jennifer Kent), un'opera seconda che, come da tradizione, pur rimanendo nell'alveo del genere ne amplifica (eccessivamente?) le prospettive e le ambizioni rispetto all’opera di esordio.
Con risultati non totalmente soddisfacenti.

Talk to me, la loro opera d’esordio, guardava infatti a una certa tradizione Blumhouse sfruttandone come carta vincente il suo approccio più squisitamente (commerciale?) ludico, e sviluppando traumi e suggestioni funzionali a generare spavento ma senza mai prendersi davvero troppo sul serio, e orchestrando il tutto all’interno della cornice, comunque “rassicurante”, del genere e nel rispetto dei suoi canoni prestabiliti.
Bring Her Back invece è, al contrario, animato da un'inflessibile serietà, persino troppa, e nel quale il trauma diventa il fulcro essenziale/inesplicabile della narrazione, cercando di inserirsi (riuscendoci?) nel filone dell'elevated horror di nuovissima generazione (non a caso, negli Stati Uniti, è distribuito da A24)
Oltremodo angosciante, crudele e radicale, ciò che lo distingue da altri horror psicologici è la sua totale mancanza di distacco emotivo, non osserva il dolore da lontano ma ci proietta al suo interno, lo ingloba insieme allo spettatore

All’apparenza confuso ma in realtà, volutamente, presumibile (già dal titolo, dopo appena una decina di minuti, è già chiaro dove intende andare a parare!), il secondo film dei fratelli Philippou si presenta come estremo e malato, tra immagini crude, atmosfere opprimenti e umiliazioni psicologiche e/o corporali, includendo tra loro diversi sotto filoni del genere, dal found footage alla stregoneria, dalle sette sataniche alla possessione e al cannibalismo, e con la stregoneria e la possessione, o il riportare indietro i morti (o quantomeno comunicare con essi) già al centro del precedente Talk to Me.
In questo senso, Bring Her Back è un horror estremamente fisico, non si limita soltanto a spaventare ma cerca davvero di infliggere dolore (emotivo).
La regia conserva dall’esordio un’identità visiva vigorosa, tra montaggio disorientante e inquadrature claustrofobiche, sul cui altare sacrifica anche alcuni aspetti potenzialmente interessanti della storia, come la cecità di Piper mal sfruttata, se non per fini puramente empatici nei suoi confronti, e, alla prova dei fatti, completamente ininfluente ai fini della storia.
Bring Her Back racconta una storia di perdita orribilmente reale che l’elemento soprannaturale distorce in una chiave di meditazione (anche surreale) sul dolore che porta alla follia, dando al film una densità viscerale, quasi primordiale (l’elemento dell’acqua, simbolo di rinascita ma anche di morte, costantemente presente in quasi ogni fotogramma) fino a scivolare nell’irrealtà o nel non sense, e questo senza dare al pubblico nessuna reale spiegazione dell’accaduto, sulla natura ancestrale del rito e/o sull'origene dell'"angelo" (forse in preparazione di un possibile prequel "barra" sequel?.

E, considerato anche il precedente Talk to Me, sembra evidente come le tematiche del lutto e della perdita (e della malattia mentale) sia ormai una costante del loro cinema, anche perché esperienze che i Philippou conoscono purtroppo da vicino, avendo una nonna morta suicida e una madre gravemente depressa e, spesso, ricoverata in clinica, ed è quindi evidente (e naturale) come tutto questo possa influenzare (cannibalizzare?) enormemente il loro approccio alle storie da raccontare.
Niente di veramente originale, in realtà, ma quello che fa probabilmente la differenza, rispetto ad altre opere simili, è proprio l’approccio “particolare” a questo genere di storie oltre all’accattivante stile registico con il quale miscelano tra loro questi elementi.
Billy Barratt e Sora Wong, interpreti dei due fratelli, danno vita a un legame commovente ma, tra tensione e dolcezza, al contempo inibente ma è soprattutto Sally Hawkins con la sua recitazione sfaccettata a essere al centro della scena, non con un mostro in senso classico ma con una madre/mostro travolta dal lutto, spezzata dal dolore e incapace di distinguere tra il proprio dolore e quello impartito agli altri.
Completano poi il cast l’enigmatico (e riuscitissimo) Jonah Wren Phillips, Stephen Phillips e Sally-Anne Upton.

A differenza di altri horror contemporanei, che filtrano l’orrore attraverso metafore spesso fredde e marcando quindi una certa distanza da esso (vedasi, a d esempio, i film di Oz Perkinse soprattutto Ari Aster o Robert Eggers) i Philippou scelgono di fare esattamente l’opposto.
L’orrore non è qualcosa che viene dall’esterno, di estraneo o di alieno, ma qualcosa che emerge da noi stessi, che trasforma la quotidianità in un continuo esercizio di coercizione, afflizione e violenza, e di cui spesso non sembriamo nemmeno rendercene conto, alimentando silenziosamente (e colpevolemte) l’orrore che ci circonda e di cui finiamo inevitabilmente vittime.
Bring Her Back è un film che non offre sollievo, né morale o narrativa, o catarsi rispetto ha una perdita che non trova conforto se non nella mistificazione, a una genitorialità che sfocia nel dispotismo e a un’innocenza che, tra gli orrori del vivere, non ha alcun modo di sopravvivere.

VOTO: 6
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