Regia di Danny Philippou, Michael Philippou vedi scheda film
La disabilità nel cinema horror (e Bring her Back).
Facciamo un grande salto indietro nel tempo: Freaks di Tod Browning.
Siamo agli inizi degli anni ‘30, fino ad allora la diversità (sia fisica che intellettiva) arrivava al cinema dalla letteratura. Prendiamo ad esempio Frankenstein, Il Gobbo di Notre Dame, oppure Dracula dello stesso Browning. La rappresentazione del diverso, incarnata in queste creature, puntava tutto sull’impatto visivo, pur avendo un origine letteraria più elaborata.
In Freaks invece, le creature vengono sostituite da persone reali, sì diverse, ma reali. Questi “fenomeni da baraccone”, come venivano considerati all’epoca, non vengono mostrati in maniera stereotipata, o malvagi o patetici, ma vengono caratterizzati aldilà della loro condizione fisica. Così troviamo in loro personaggi amabili e ingenui, ma anche furbi ed egoisti. Insomma, con pregi e difetti.
Nel film la pura malvagità è rappresentata dai personaggi cosiddetti “normali”, da cui il pubblico di allora si aspettava un esempio di alta moralità e che invece si dimostrano cattive e crudeli, dando così a chi guarda la sensazione di sentirsi chiamato in causa. Non proprio una cosa da niente per quei tempi.
Nel corso del ventesimo secolo, la rappresentazione della disabilità nel cinema si è evoluta, anche se non proprio in positivo. Dagli anni ‘70 in poi, i film che sfruttavano la diversità fisica e mentale a servizio del genere si sono divisi sostanzialmente in due: gli slasher, ad esempio The Texas Chain Saw Massacre, in cui la disabilità era sinonimo di violenza incondizionata e motivo di terrore; oppure quelli pietistici, in cui è la vittima ad essere disabile e tutto ruota intorno alla sua condizione unicamente per suscitare pietà nello spettatore.
Arriviamo ad oggi. Bring Her Back fa sicuramente parte della seconda categoria, estremizzandola.
Prima di parlare di Piper, concentriamoci sugli altri protagonisti.
Abbiamo Andy, un adolescente che si occupa della sorella dopo la morte del padre, padre che si scopre lo picchiava e denigrava, probabilmente perché frutto della precedente relazione finita male.
Abbiamo Laura, la nuova madre adottiva dei ragazzi. Laura non ha ancora superato la morte della figlia Cathy e ne conserva i resti in un congelatore, sperando di riuscire a riportarla in vita tramite un rituale visto in una VHS. Visto cosa significa saper cercare nei mercatini dell’usato?
C’è poi Oliver, un bambino che viene presentato pieno di disturbi, tra cui il mutismo selettivo. Si scopre che Oliver è stato rapito da Laura per essere posseduto del demone Tari, sempre a scopo del rituale di resurrezione della figlia.
Tutti i personaggi presenti sono accuratamente scelti per suscitare empatia in vari tipi di spettatori. Anche Laura, in quanto madre addolorata dalla perdita della figlia, può facilmente ispirare pietà in chi guarda. L’inquadratura finale è emblematica sotto questo aspetto.
In questo calderone di traumi irrisolti, abbiamo Piper, l’anima pura e innocente, ovviamente disabile. Piper è una ragazza ipovedente, che in un film horror è una caratteristica piuttosto comune e molto comoda ai fini della sceneggiatura. Soprattutto in questo film, perché Piper, oltre a non vedere, non sa assolutamente niente, non capisce niente e non fa niente di sua spontanea iniziativa.
Dopo la perdita del padre non c’è un vero e proprio momento di tristezza e sembra superare la cosa senza difficoltà. Strano, ma ok. Per tutto il film viene sballottata a destra e sinistra e manipolata senza nessuna difficoltà da Laura. Il legame intenso che sembra (e dovrebbe) avere con il fratello, svanisce in poco tempo per due insinuazioni campate per aria da parte di una persona appena conosciuta.
Manca completamente una caratterizzazione realistica del personaggio, c’è in scena quando serve alla trama e viene portata a giocare con altri bambini quando serve che non ci sia.
Con il procedere degli eventi è sempre più chiaro che Piper sia l’espediente per cui agiscono gli altri protagonisti. Andy ha un senso di responsabilità nei suoi confronti e la vuole proteggere, Laura vuole servirsene per riavere la figlia, Oliver, beh, Oliver se la vuole mangiare.
Anche alla fine del film, non c'è niente che faccia pensare ad un’evoluzione del personaggio. Semplicemente scappa e viene salvata da dei passanti.
Quale era lo scopo dei fratelli Philippou? Scioccarci con un nudo integrale e con inutili scene splatter? Oppure fare pensare allo spettatore: «poverino questo personaggio disabile, mi dispiace tanto per lui»? Oppure, ancora peggio, volevano trattare l'elaborazione del lutto attraverso una sceneggiatura ridicola e dei personaggi piatti e stereotipati? I Walked with a Zombie è un film del 1943 e tratta l'argomento con molta più delicatezza e inquietudine.
Qualunque fosse il loro intento, mi dispiace ma per me è un grande no.
Come per Talk to Me, ho avuto la costante sensazione che questo film non fosse per me. Non me inteso come persona, me come target di riferimento. Personalmente credo che aldilà del contenuto e della forma un film debba poter parlare a tutti, altrimenti è un semplice prodotto, in questo caso scadente.
A chiudere il cerchio c’è la parte tecnica. Non riesco davvero a capire la scelta di eliminare completamente la profondità di campo. Guardando il film avevo la sensazione di essere in una riunione su Teams, con il mio interlocutore che aveva lo sfondo sfocato per non farmi vedere il busto del Duce sulla mensola del soggiorno. Mah.
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