Regia di Gabriele Mainetti vedi scheda film
Film visto con molto sospetto, e convinto da una collega che sa fiutare golose spezie estetiche in un cinema italiano che serve sempre la solita pietanza: troppo alto il rischio di misurarsi con il cinema di azione orientale sullo sfondo di Roma. A parte la visione di una Roma multietnica e felicemente integrata, che di fatto non esiste (Piazza Vittorio con le bancarelle multietniche è pura fantasia), il film - per chi vuole credere al cinema - ha un impianto narrativo assolutamente credibile tra melodramma, revenge movie orientale e commedia di coltello, tale da far dialogare l’angusto panorama romanesco con temi universali, come morte, vendetta, giustizia. In un cinema mediocre come il nostro, ben affondato dentro la propria pancia (come se la Storia fosse finita e il tempo fermo a una sazietà annoiata e immobile), “La città proibita” risalta in maniera impressionante, pur essendo probabilmente solo una riuscitissima imitazione di un cinema d'azione orientale (Bruce Lee e Jackie Chan), ben miscelato con i cambiamenti sociali che Roma di solito nasconde, e che Mainetti ha saputo rendere con partecipazione. Se per Mei la ricerca della verità viene prima di ogni cosa (anche a costo della vita), per Marcello, la verità non vale la pena cercarla, se il prezzo è rischiare la propria comoda posizione anche se se ne è insoddisfatti (chiudersi nella cucina del ristorante di famiglia). La forza etnica di una “fragile” ragazzina cinese, porta energia nuova in una cultura romana decadente, ferma alla nostalgia per una gloria passata, i cui soli segni paradossali sono l’amatriciana e la carbonara, oltre alle chiese, ai sampietrini e a un dialetto spiccio e sbrigativo, che se la prende coi morti (“mortacci tua” da noi è un epiteto quasi affettuoso) dato che sono la prova “vivente” che dopotutto – a dispetto dell’eternità – si muore, a Roma come in oriente. È solo Alfredo, il padre di Marcello, che è disposto a cambiare tutto, anche a costo di cedere il ristorante e abbandonare moglie, figlio e cinquecento cravatte. Si è innamorato di una prostituta cinese (la sorella di Mei) e vuole vivere con lei. Dovunque ci sia ibridazione – sembra dire Mainetti – c’è vita che affronta il pericolo di morire; dove c’è illusione di immunizzazione, è proprio lì che la vita si difende nel non voler morire, nel non lasciarsi contagiare dall’altro, di consumarsi per accidiosa purezza etnica. L’amatriciana si contagia con la zuppa cinese, nella quale Marcello sostituisce i noodles coi bucatini. L’operazione di Mainetti si compie nella scia di quel cinema italiano popolare che dagli anni settanta ha cercato questo contagio estetico, ibridando poliziesco americano e commedia dialettale (Amendola e Corbucci, ma non solo), avendo sempre Roma come sfondo. Roma città non “eterna” ma “proibita”? Nella sua sonnolenta andatura, Roma è una città che pare accettare chiunque, a patto rimanga nella nicchia invisibile che ogni etnia scava al suo interno, sia che si dorma in strada, o in un minuscolo bazar con i sottoscala adibiti a dormitorio. Roma non è interessata a cambiare, piuttosto a degradarsi, come degrada ogni metropoli che non vuole conoscere alterità. E se il cinema servisse a fare cultura, a creare un discorso comune tra le differenze più estreme? Se riuscisse veramente a fare delle piazze dei bazar, a rendere il caos vitale? Tra “Maggio il rapper” e il migrante africano taglieggiato da Annibale (quello che nel finale si appoggerà come un mantra a un “mortacci tua” apotropaico), forse Mainetti con questo film sorprendente ha fatto davvero qualcosa per contribuire a frullare ulteriormente il melting pot metropolitano tra Cina, Bangladesh, Africa e romanità, dandogli così dignità estetica; per chi vuole credere al cinema - dicevo - e a una tradizione che volente o nolente non può rimanere uguale a sé stessa in eterno, benché si stia nella città che è convinta di sopravvivere a tutto, che è convinta di non morire mai.
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