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Warfare - Tempo di guerra

Regia di Alex Garland, Ray Mendoza vedi scheda film

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La recensione su Warfare - Tempo di guerra

di lamettrie
6 stelle

Difficile da valutare. Un veloce – per quanto lento all’inizio - horror di guerra, con tanti aspetti ottimi. Ma la lettura che offre è faziosa – e non rispetta in modo adeguato i diritti umani, nel suo filoamericanismo - o, nel migliore dei casi, troppo ambigua.

Un’ora e mezza in presa diretta: la vicenda narrata sembra proprio durare esattamente quanto il film. Non solo per questo, il realismo è splendido: truculento il necessario. Questo è il massimo pregio, che lo apparenta al meglio della doverosa denuncia degli orrori della guerra.

Fotografia, montaggio, sonoro ed effetti speciali sono eccellenti, a maggior ragione dove l’intensità emotiva richiesta esalta questi fondamentali.

Tutti recitano bene, esibendo il terrore di vedere la propria vita appesa ad un filo. La complessità della vita quotidiana del soldato, con tutte le complicazioni crescenti dovute alla tecnologia da pochi decenni, è ben raffigurata.

Ma il film di Garland non è esente da ombre. Innanzitutto quelle commerciali, per riecheggiare la modalità del videogame - di cui riporta il nome - di guerra, quasi ad avvalorarne la realisticità.

Poi l’innegabile faziosità filoamericana, che distorce il senso della storia. In Iraq, nel 2006, tutti sanno che gli americani erano gli aggressori, che non avevano alcun motivo per legittimare tale attacco imperialista, nonostante le grottesche menzogne di facciata (che gli iracheni avevano delle armi di distruzione di massa: il che è stato ampiamente dimostrato falso sin dalle prime ore). Eppure la sceneggiatura ne mostra i soldati come degli eroi, che cercano di fare il meglio possibile. Ancora più chiaro ciò appare quando, nella seconda metà del film, in modo quasi inverosimile nessuno dei soldati statunitensi venga mai scalfito da una pallottola, sebbene in una condizione terribile.

Un’oggettiva, raccapricciante esaltazione del mestiere bellico inquina questo lungometraggio. Anche perché non si cita affatto – e qui si mostra il peggio dell’operazione di Garland, che ha scritto anche soggetto e sceneggiatura – l’evidenza che si tratta nient’altro che di mercenari: cioè il peggio dell’umanità. Gente che in Iraq ha scelto di andarci solo perché era pagata profumatamente, al fine di uccidere e lucrarci sopra, contro delle autentiche vittime in quel caso.  Ancor più squallido, poi – e ciò fa da contraltare alla beatificazione descritta – è l’anonimato delle vittime, che lì passano pure per aggressori, per chi ignora quel brano di storia – come tutti in Occidente siamo stati condizionati a fare. È vero che lì chi si difendeva cercava di uccidere il più possibile i propri aggressori, gli americani: ma l’indefinitezza della – legittima come difesa, ma deprecabile in quanto violenta – azione degli occupati iracheni, è davvero censurabile.

Come se fossero delle nullità, rispetto all’America-centrismo. La storia letta alla luce dei vincenti, che però qui hanno tutti i torti.      

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