Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film
Questo è un grande film che funziona come una medicina a rilascio progressivo, ti lavora dentro sottopelle nelle ore e nei giorni successivi alla prima visione. Il tono ridanciano e grottesco può infastidire e dare l'impressione di svilire la dimensione politica, ma in realtà è la vera forza del film.
Paul Thomas Anderson (per gli amici, PTA) non ha nulla da spartire con il quasi omonimo Wes: se quest’ultimo costruisce diorami fighetti color pastello, il primo li fa saltare in aria. Nel suo cinema non ci sono estetismi, simmetria e ordine ma detonazione e caos. Dopo 5 anni di silenzio, con un budget faraonico (140 milioni di dollari, 25 solo per DICaprio) e adattando liberamente un romanzo di Pynchon, Anderson torna con un film politico fino al midollo (ma senza ideologie né proclami) che rispolvera il Grande Cinema Americano, epico, senza rete, “larger than life”. Girato in 35 mm Vistavision, è un film da vedere in sala, la più grande della vostra città, perché dentro quello spazio smisurato si agitano corpi, macchine, deserti, architetture e il disordine del mondo. Cupo, incendiario, sfrontato, a tratti esilarante (ma a denti stretti) e pieno di eccessi, sotto l’apparenza di un action movie misto a melò e commedia satirica, il film offre una spietata radiografia dell’America di oggi, mai così sull’orlo del baratro, ma ancor più un ritratto di esseri umani alla ricerca del loro posto tra le macerie.
Da una parte c’è Bob (Di Caprio), ex rivoluzionario bombarolo disilluso, con vestagliona alla Lebowsky, in fuga e alle prese con la paternità; dall’altra il Colonnello Lockjaw (Sean Penn in stato di grazia), militare paranoico, priapico e suprematista. In mezzo, una magnetica e sexyssima Teyana Taylor nei panni di Perfidia Beverly Hills (che nome meraviglioso!), guerrigliera solitaria e indomabile, incarnazione della resistenza, che incinta spara al nulla come i gangster di Gomorra. E una menzione va anche a Benicio Del Toro, collaborazionista undercover a capo di un dojo, qui perfettamente sornione e tutto in sottrazione. Anderson costruisce un grande film da una storia semplice, quasi fiabesca, e grazie a un montaggio sublime trasforma, dopo il ritmo indiavolato della prima parte, ciò che accade in un solo giorno, sedici anni dopo, in un’epopea omerica. Alla fine Anderson ci restituisce un inno al disordine vitale come unica forma possibile di libertà, al diritto di sbagliare e di resistere nonostante le legnate della vita, siano esse i fallimenti di ideologie, ideali o rivoluzioni, e questo vale sia per i “buoni” che per i “cattivi”. E’ un film su chi non si arrende, di fronte alla realtà, a un amore impossibile o a una tirannia.
Ogni immagine è come una macchia di Rorschach, dove ciascuno può trovare la propria idea di rivoluzione, fallimento, desiderio o paura. E la tecnica non è esercizio di stile, ma grammatica e gesto politico: la frammentazione, il disordine, l’alternarsi di orrido (il personaggio interpretato da Sean Penn) e sublime (tra tutte, i ragazzi ribelli che sfrecciano sui tetti di notte con gli skateboard e l’inseguimento sulle strade del deserto che salgono e scendono come onde sull’oceano, con le tre automobili che rappresentano passato, presente e futuro), la confusione e commistione tra generi non sono difetti ma strumenti per raccontare la complessità del mondo. Anche la colonna sonora è un contrappunto perfetto per ricordarci che il mondo è insieme bello e brutto, passando da tonalità jazz accattivanti a sonorità martellanti e cacofoniche. Il sarcasmo e il grottesco - che a una prima visione distratta possono sembrare svilire la dimensione politica - qui non vengono utilizzati per alleggerire, ma come strumenti di verità: l’ironia pone la giusta distanza per lo spettatore e diventa l’unico modo per filmare la politica senza scadere nel pamphlet, e solo il ridicolo può restituire con sincerità la retorica del potere. In bilico tra tragedia e farsa, il film diventa un atto di resistenza estetica e morale, un inno al disordine vitale e al diritto di sbagliare.
Acclamato quasi ovunque e già battezzato da molti come “film del decennio” (bum!), a me personalmente è piaciuto e le 2 h e 41 minuti sono volate, pur lontano dai brividi del Petroliere, Boogie Nights e Il Filo Nascosto. Qualche compiacimento autoriale di troppo e un finale emotivo e zuccheroso alla Eastwood, che può suonare posticcio e pensato per i premi, gli impediscono a mio parere di essere un capolavoro. Non tutto è perfetto, certo, ma rimane un film necessario, che ti rimane addosso. Anderson non predica né consola, semplicemente osserva. E ci ricorda che non conta vincere, ma continuare a combattere. Una battaglia dopo l’altra.
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