Regia di Mohammad Rasoulof vedi scheda film
Iman (Missagh Zaren) ha appena ricevuto la promozione a giudice istruttore presso il "Tribunale rivoluzionario di Teheran”. La promozione avviene nello stesso periodo in cui la ribellione giovanile contro il regime teocratico iraniano sta investendo l’intero paese. Iman è un uomo devoto tanto al suo paese quanto alla famiglia, e la sua condizione di relativa serenità esistenziale viene messa in crisi quando non riesce più a trovare la pistola che gli è stata data in dotazione proprio a causa del clima rovente che serpeggia nel paese. Lui è sicuro di averla nascosta in casa e quindi i sospetti ricadono sulla moglie Najmeh (Sohelia Golestani) e le giovani figlie Rezvan (Mahsa Rostami) e Sanà (Setareh Maleki). Intanto, le due ragazze abbracciano il vento della rivolta perché grazie al passaparola della rete riescono a scorgere il vero volto del regime teocratico di Teheran. Così, le tensioni che percorrono il paese e quelle interne alla famiglia tendono a coincidere mettendo a rischio convinzioni che si ritenevano inscalfibili.
Il seme del fico sacro (2024): Soheila Golestani, Misagh Zare, Mahsa Rostami, Setareh Maleki
Una cosa che emerge spesso (per non dire sempre) nei film iraniani e l’attitudine a catturare la vita ordinaria per quella che è e quindi fare della “semplicità” scenografica una modalità stilistica che diventa cinema dal forte impatto politico. Perché, da questa modalità, la macchina da presa è tesa a catturare spaccati di vita che hanno in sé una certa valenza sociopolitica per il fatto stesso che questi spaccati di vita somigliano a qualsiasi altri spaccati di vita rinvenibili in qualsiasi altro posto del mondo.Si prendano (a titolo del tutto esemplificativo) le tipiche pulsioni giovanili : le aspirazioni per il futuro, i desideri, la voglia d’allegria,la ricerca di leggerezza. Ecco, rimanendo nell’ambito di una fotografia sociale ovviamente generale, nei giovani iraniani queste cose sono identiche a quelle rinvenibili in qualsiasi giovane del pianeta. A cambiare è naturalmente il contesto sociale in cui dette pulsioni possono e debbono svilupparsi, la sovrastruttura socioeconomica (per dirla “marxianamente”) che ne regola il grado di fattibilità tra il desiderio di fare una cosa e la sua concreta realizzazione. In Iran questa fattibilità è sottoposta ad un attento controllo sociale, che nel migliore dei casi configura una condizione di libertà vigilata : quando i limiti imposti dal regime teocratico vengono rispettati per paura e non certo per convinzione.
Tutto questo premettere mi è sembrato utile, non tanto e non solo per delineare, seppur sinteticamente, uno dei tratti poetici (credo) più distintivi della ricca cinematografia iraniana, ma soprattutto per rimarcare il fatto che ne “Il seme del fico sacro” di Mohammad Rasoulof quel limite che opprime le libertà viene fatto implodere nell’incontro scontro generazionale che si consuma tutto tra le mura domestiche di una famiglia iraniana : tra chi ha tutto l'interesse a conservare lo status quo, fosse solo perché ha sempre paura di ribellarsi al potere dominante,e chi è finalmente disposto a farlo.
Pubblico e privato tendono infatti a coincidere in tutte evidenza nel film, dando corpo all’idea che le tensioni sociali che percorrono l’Iran non sono più cose che possono rimanere esterne ed estranee allo scorrere ordinario della vita.
Costretto a girare in segreto e perlopiù in interni, con gli esterni fuori da Teheran, Rasoulof gira un film che, nel mentre si pone come un potente atto d'accusa contro il regime teocratico iraniano, rende omaggio al coraggio di quanti (soprattutto le donne) stanno iniziando a ribellarsi con sempre più vigore contro le ristrettezze sociopolitiche che offendono la dignità umana. Questo binomio è rafforzato da una chiara scelta stilistica. Infatti, la narrazione filmica si intreccia con le immagini reali delle proteste nelle strade di Teheran così come l’estetica verticale degli smartphone si sovrappone a quella orizzontale in 16/9, e perché il cinema è un’arte che sa produrre significati andando oltre il rappresentabile, tutto questo diventa un modo per supportare l'idea che alla modernità, con tutto il suo corollario di spinte emancipatrici, non è più possibile sbarrare la strada
La regia è attenta a presentare le dinamiche domestiche di una famiglia, non tanto come il fulcro di un fisiologico scontro generazionale da cui si dovrà necessariamente produrre una resa dei conti, ma come lo spazio simbolico in cui si consuma una crisi ormai non più procrastinabile e dalla quale ognuno può finire per dover fare i conti con il baratro sociale che l’attende.
“Il mondo è cambiato ma Dio è rimasto lo stesso”,dice molto in emblematicamente il padre, parole che evocano, tanto l’indissolubilde preminenza dell'ideologia religiosa quanto la tendenza manipolatoria di offrigli un univoco sbocco sociale e spirituale, capace di reprimere sul nascere qualsiasi seme rivoluzionario (ecco la chiave metaforica del titolo del film). In tal senso, altrettanto emblematica, e a mio avviso centrale nell’economia della narrazione filmica, è una scena che si svolge a tavola durante una discussione di famiglia rispetto alle opinioni contrastante tra padre e figlia sulle proteste che stanno accendendo il clima politico In Iran.Il primo si domanda “se dopo vent'anni di servizio per questo paese non vuoi che se ne sappia di meglio”. La seconda, in maniera decisa, risponde “no, non lo sai papà, perché sei all'interno del sistema che credi e vuoi preservarlo a tutti i costi”. Ecco, queste parole marcano la differenza speculativa tra chi è totalmente immerso nel ruolo attribuitogli dal disegno sociale e chi vuole rimetterli tutti in discussione questi ruoli, tra chi non sa scorgere il limite oltre il quale può riflettersi la passività ormai storicizzata di un paese intero e chi oltre quel limite vuole seminare una nuova e più bella coscienza civica. E in un paese dove il limite tra ciò che si può dire e fare e cosa no è del tutto arbitrario, questo significa invitare ad andare oltre le verità rassicuranti imposte dal regime teocratico. Per un corto circuito che se da un lato può innescare una crisi profonda, dall'altro lato può concludersi con la salvazione di tutti.
Questo percorso difficile verso la salvazione è quando sperimenta la famiglia avendo il padre come centro nevralgico della dialettica degli opposti e facendo di una pistola che scompare la matrice simbolica dell’inevitabilità dello scontro. Questa circostanza, infatti, mette sotto la cappa del sospetto tutti i membri della famiglia : il padre rischia grosso se non la ritrova, la moglie è una complice silente ma non si sa di chi e le figlie neanche osavano immaginare che il padre potesse avere una pistola. Il livello di paranoia raggiunge livelli altissimi. Da un lato, il padre conosce il peso opprimente della bugia, ma se esteriormente mostra di soffrire per quelle che crede gli vengano raccontate dalle figlie perché deve salvaguardare la sua onorabilità di padre e di giudice, dentro di sé, a logorarlo di più sono quelle che hanno retto la sua vita da fedele servitore del regime. Un regime retto da un insieme di regole che prima lo porta ad essere un giudice che condanna per conto di decisioni prese dall’alto e poi lo fa sentire come il capro espiatorio di un sistema paese del quale inizia a intravedere le feroci contraddizioni. Dall'altro lato, le figlie cavalcano il vento della protesta perché lo sperimentano quotidianamente attraverso la verità dei fatti documentata da innumerevoli testimonianze attraverso la rete. Da quest'ottica, interessante diventa il mutato rapporto che intrattengono con il padre, un rapporto che se non spegne affatto l'amore filiale lo indirizza verso una diversa prospettiva : da padre amorevole a uomo oppressore.
Ogni questione che nasce in seno ad una famiglia perché investita dalle pulsioni rivoluzionarie del mondo di fuori, può aiutare ognuno a vedere le stesse cose da una diversa prospettiva : la persona che si è sempre amata come il paese a cui si è sempre creduto.
In conclusione, questa mi sembra essere la chiave speculativa de “Il seme dal fico sacro”, un film bello e coraggioso che usa l'afflato drammatico di un particolare nucleo familiare per invitare a riflettere su degli sconvolgimenti sociali molto più generali.
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