Regia di Magnus von Horn vedi scheda film
La ragazza con l’ago
(The girl withe needle, in danese Pigen med nålen)
(Danimarca, 2024)
di Magnus von Horn
The Girl with the Needle (2024): locandina
Siamo in Danimarca, subito dopo la prima guerra mondiale: in quegli anni la luminosa Copenhagen appare una città lercia, sgangherata, fatta di vicoli sghembi, di cunicoli fangosi, fumosa per le ciminiere che svettano ovunque (come nella Londra dello Squartatore).
Il film narra la storia vera di una serial killer di neonati che a quell’epoca aveva guadagnato tutte le prime pagine dei giornali: una certa Dagmar Johanne Amalie Overby, negoziante di dolciumi. La donna, fingendosi pietosa mediatrice fra disperate ragazze-madri e facoltose dame sterili, aveva avviato un miserabile traffico clandestino di neonati che poi invece sopprimeva.
La protagonista, pedinata ossessivamente dalla camera, è Karoline (una vedova di guerra che poi scoprirà di non essere affatto vedova in quanto il marito non è morto ma è stato orrendamente ferito): l’infelice Karoline, operaia tessile, vive in condizioni di miseria estrema in un appartamento sordido di un quartiere lercio. Quando viene sfrattata per insolvenza, trova sistemazione in una stanza squallida per 15 corone la settimana (anticipate). Il nuovo affittacamere è gentile e tenta inutilmente di farsi pagare in natura.
Anche il direttore della fabbrica è gentile, e anche lui si approfitta della solitudine disperata della povera vedova.
Karoline commette un errore: in un momento di debolezza e disperazione ma anche di speranza per un possibile riscatto, cede al suo capo e si ritrova incinta.
Nel frattempo torna il marito, orribilmente sfigurato: lei, che ancora spera nel dichiarato amore del suo direttore, scaccia malamente il marito che è costretto a rifugiarsi in un circo per esibirsi nella sua mostruosità.
Il suo capo vorrebbe sposarla, ma l'arcigna madre del suo direttore-seduttore, rigida baronessa proprietaria della fabbrica, obbliga il figlio a licenziarla. E per Karoline si spengono i più incerti e timidi tentativi di riscatto.
Alla povera disperata non resta che tentare disperatamente un aborto con un lungo ago da maglia (da cui il titolo del film).
E qui entra in scena la perfida Dagmar, la negoziante di dolciumi, che la salva, la adotta in attesa del parto, la assume come balia, si prende cura di lei e del suo bambino; fra le due si instaura uno strano rapporto pieno di diffidenze e ambiguità (che Karoline accetta perché rifiutata da tutti).
Da qui in avanti, la trama si fa più inesorabilmente truce: Karoline va nel Circo alla ricerca del suo infelice marito, scopre l’orrida attività della sua salvatrice, della quale è stata in qualche modo complice. E quando la polizia bussa alla porta per arrestare Dagmar, Karoline si butta dalla finestra.
Prima dei titoli di testa e dopo quelli di coda, scorrono sullo schermo nero ad un ritmo frenetico (morphing) volti infernali, sfigurati come nei disegni di Bacon;
Il bianco e nero quasi espressionista esalta la cupa miseria degli interni che rispecchiano l’angoscia di tutti i personaggi, buoni o cattivi, accomunati nella disperazione. La livida luce del nord pesa come una algida cappa sul groviglio di infelicità cruda della storia e dei suoi cupi protagonisti.
Per i temi e le atmosfere soffocanti il film può essere considerato, pur nella sua atipicità, un horror devastante che lascia senza fiato.
Più o meno evidenti appaiono i richiami - dopo Euripide - al cinema espressionista tedesco: a Murnau (L’ultima risata, del 1924), a Fritz Lang (M – Il mostro di Düsseldorf, del 1931); ma c’è anche qualcosa di Chaplin (quello del macabro Monsier Verdoux del 1947), di Bergman (Persona, del 1966), del cupo Haneke (Il nastro bianco, del 2009); e certe atmosfere del polacco Pawlikowski (Ida, del 2013); ma sotto alcuni aspetti è possibile trovare riferimenti a Lynch (Elephant man, del 1980) o a Browling (Freaks, del 1934), dove sono gli uomini più devastati nel fisico che appaiono più umani (vedi la tristissima figura del reduce sfigurato e ripugnante, ma compassionevole e delicatissimo, marito di Karoline) dove la pietas contrasta con la deformità somatica.
Al di là di tutte questi collegamenti da cinefii, l’atmosfera che si respira guardando il film è la stessa che ci prendeva guardando alcuni capolavori del neorealismo italiano e certi film nordici di intensa emotività (Dreyer o Bergman).
Il film è spietato e indigesto forse perché la vittima appare spaesata e impotente davanti alle più crude atrocità, oltre che davanti alla più alienante rassegnazione.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta