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Wolf Man

Regia di Leigh Whannell vedi scheda film

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La recensione su Wolf Man

di YellowBastard
5 stelle

Solitamente i film americano vengono quasi sempre promossi dal marketing come qualcosa di nuovo, fresco, moderno, contemporaneo. I remake americani che abbiamo visto in questi ultimi anni però non sono (quasi) mai qualcosa di fresco, nuovo, moderno e contemporanei. La nuova iterazione del classico Uomo Lupo della Universal, rivisto dalla solita Blumhouse, seppur non innovativo come il più riuscito L’uomo invisibile, potrebbe invece rientrare in questa definizione.

 

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Considerata poi la tortuosissima produzione che l’ha accompagnato negli ultimi anni, il nuovo Wolf Man è un lungometraggio che qualcosa da dire ce l’ha, scostandosi da quel filone di cinema horror che si appoggia fin troppo visceralmente a situazioni e storie già note per creare remake basate principalmente su jump scare, gore o eccessi di vario genere.

Wolf Man invece le idee le ha e, per quanto non sempre riuscitissimo, non si può certo dire che non ci abbia almeno provato.

Un po' come con L'uomo invisibile, il regista australiano sorprende con un film insolito e che trova nella sua ambiguità, di forma oltre che narrativa, la sua unicità e (forse?) anche un insolito (e malsano) fascino.

 

La storia, ambientata in un’unica notte, è piuttosto classica (un uomo viene morso da un lupo mannaro durante un’escursione e, suo malgrado, si trasforma anche lui nel mostro che lo ha aggredito) ma tenta di aggiornarne le tematiche sfruttando il tema dell’infezione, una malattia degenerativa che colpisce mente e corpo nel più classico dei body horror, sfruttandone ampiamente i suoi maggiori stilemi.

Il film di Leigh Whannell si concentra quindi sulla lenta trasformazione del protagonista, il corpo muta e cambia pelle, i sensi si sviluppano e gli istinti si fanno sempre più incontrollabili, la sua percezione del buio diventa più nitida riuscendo a vedere di notte in modo sempre più chiaro, alterandone anche il modo di percepire il mondo, perde lentamente l’uso della parola e la comunicazione con i familiari diventa sempre più difficile, passando da quella verbale a pochi e semplici gesti.

Nessuno comprende cosa sta succedendo ma è chiaro che la sua mente sta lentamente scivolando via, mostrando un processo graduale di allontanamento della nostra società e della nostra cultura.

La regola vorrebbe che il punto di vista sia dalla parte degli affetti del protagonista, prima in apprensione e poi sconvolti per la sua trasformarsi in una creatura non più umana, il regista australiano invece costruisce la pellicola principalmente dalla parte di chi è stato morso e si sta lentamente trasformando in un mostro.

Il che sarebbe anche una cosa buona e giusta se Whannell riuscisse appieno ad attuare i suoi propositi.

 

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Purtroppo, in Wolf man non tutti gli intrecci di sceneggiatura riescono o è tutto logico e coerente, non sempre le decisioni prese sembrano propriamente logiche mentre le situazioni tendono spesso a ripetersi in modo alquanto monotono, senza trovare il modo di variarne tempi e luoghi che rimangono, forzatamente, circostanziati.

L’aspetto orrorifico del film fa il suo discreto dovere ma non stupisce più di tanto, a partire proprio dal rinnovato aspetto, molto più minimalista, del mostro, e non è neppure l’aspetto predominante della storia in quanto Whannell punta piuttosto a rimarcarne quello più simbolico e/o metaforico. 

Questo non toglie che il film sia comunque un esperimento coraggioso ma manca probabilmente di qualcosa di davvero memorabile o di veramente graffiante, oppure un’idea o un colpo di mano che rendeva, invece, L’uomo invisibile così attuale e moderno.

Anche qui, come nella sua precedente pellicola, punta su un cast di interpreti inusuali ma di comprovata professionalità (Julia Garner, Christopher Abbott, Matilda Firth, Sam Jaeger, Benedict Hardie) e anche qui l’uomo (lupo) si porta dentro, ereditandolo, il germe del patriarcato, anche e soprattutto inteso come un irredimibile istinto animale che inevitabilmente porta il genere maschile all’incapacità di amare, di riuscire a comunicare davvero con il genere femminile e di diventarne quindi, per quanto (anche?) involontariamente, una minaccia, ma il tutto sembra davvero un po' troppo semplicistico e/o telefonato.

 

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Whannell gioca in maniera quasi sperimentale, con modi e toni che (volontariamente?) tendono a creare straniamento sia nella gestione dei tempi che dello spazio, o nei comportamenti e nella gestione dei protagonisti utilizzati in maniera un po’ eccessiva e ripetitiva ma che comunque contribuisce (ancora, volontariamente?) a un disorientamento del pubblico simile a quello dei protagonisti.

 

Per un horror del 2025 sarà anche in linea con lo zeitgeist attuale, specie in America, ma rimane comunque un film piuttosto ambiguo, in precario equilibrio tra classicismo e rinnovamento, ma è proprio in queste sua precarietà, nelle sue stesse contraddizioni, più strutturali che tematiche, o in una sua presunta (?) irresolutezza che comunque gli permette di conservare una sua certo, particolare fascinazione.

Però non sempre questo può bastare.

 

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VOTO: 5

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