Regia di Béla Tarr vedi scheda film
"Le armonie di Werckmeister" è un film meno estremo, più tradizionale rispetto al precedente"Satantango", girato con uno stile per molti versi affine, altrettanto pessimista e carico di angoscia, una nuova occasione per l'ungherese Bela Tarr, sulla scorta di un romanzo del suo scrittore preferito Laszlo Krasznahorkai, per riflettere sulla vanità del mondo e dell'esistenza umana, sul pericolo di una nuova apocalisse qui innescato dall'arrivo in una landa desolata di un circo che esibisce una balena gigante e in cui una delle attrazioni principali è un nano ribattezzato "Il principe", che nel film non si vede mai, che incita la folla a distruggere tutto secondo proclami dittatoriali. Bela Tarr è fedele ad un'estetica precisa, oltre che ad una determinata visione filosofico/esistenziale: qui ritorna un bianco e nero con dei neri cupissimi e dei bianchi lattiginosi, una divisione scandita in lunghissimi piani sequenza (ho letto da più parti che sono in tutto 39 inquadrature per un film di 145 minuti) dove i movimenti di macchina sono continui, instancabili.
Rispetto alle sette ore e passa di "Satantango", qui questa estetica è applicata ad un'opera ugualmente radicale, con un ricorso ai tempi morti del racconto che risulta abbastanza simile, conferendo la stessa impressione di "lentezza", ma nel complesso più accessibile per lo spettatore medio. "Le armonie di Werckmeister" è un film poco dialogato, è basato su un proprio ritmo interno che lo porta avanti rifiutando una narrazione di tipo tradizionale, con pochi personaggi individualizzati e caratterizzati in maniera decisamente essenziale: un film che vuole colpire soprattutto con la forza di una visione originale, a suo modo possente, ipnotica e visionaria.
Un film con una fotografia firmata da ben sette operatori è un caso più unico che raro, come giustamente osserva il Morandini, ma è importante anche l'apporto della musica di Mihaly Vig, decisamente emozionante in alcuni momenti chiave del racconto; fra gli attori si apprezza soprattutto il protagonista Lars Rudolph, che ha una maschera sobria e prosciugata, fortemente espressiva in alcuni primi piani, mentre fra i comprimari si applaude la musa fassbinderiana Hanna Schygulla, molto brava nel ruolo della dispotica signora Tunde, pur avendo a disposizione soltanto un paio di scene.
Arrivando in qualche modo a formulare un giudizio, non si può non considerare la natura metaforica della pellicola, il suo valore di denuncia di un sistema oppressivo come quello dei regimi comunisti giunti al loro crepuscolo, anche se nel film Tarr sceglie un'ambientazione volutamente indeterminata, così come i riferimenti politici sono estremamente vaghi, ermetici ed allusivi. Non saprei dire se superiore o inferiore rispetto a "Satantango" e al "Cavallo di Torino", "Le armonie di Werckmeister" è uno splendido frutto di un rigore e un'intransigenza registica che ci regalano sequenze fra le più potenti del cinema dell'ultimo ventennio, accompagnate da una tecnica di mostruosa padronanza del mezzo che qualcuno potrà tacciare di compiacimento, ma che, al tempo stesso, si rivela uno strumento insostituibile per penetrare nelle contraddizioni di questa umanità alle soglie dell'autodistruzione. Dunque anche stavolta, nonostante pensassi di non cedervi, non si può negargli il punteggio più alto.
Voto 10/10
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