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Presence

Regia di Steven Soderbergh vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Presence

di lussemburgo
8 stelle

Non è dato sapere chi sia la presenza che aleggia nella bella casa in cui vanno ad abitare i Payne, tipica coppia americana con due figli adolescenti. Identificandosi con la telecamera, che deforma la prospettiva nella costante ripresa grandangolare e nei morbidi piani-sequenza con cui segue i nuovi inquilini, quella presenza osserva senza commentare, in un silenzio impotente rotto soltanto dalla manifestazione sporadica di un’anomalia ambientale nei momenti più cruciali, come un poltergeist paziente ma timoroso.

Ed è già tutto nel suo impianto narrativo il film di Soderbergh, che lascia ampi spazi vuoti al racconto delle vicende della famiglia, tra le preoccupazioni lavorative della madre, sempre impegnata a trovare una soluzione a un problema, i crucci emotivi del padre che tenta di tenere insieme i legami affettivi, le vicissitudini dei due ragazzi agli antipodi dei cliché sulle scuole americane, tra bullismo e abuso sessuale, con una preminenza e arroganza maschilista (promossa dalla madre col suo amore esclusivo) e una sofferta e inespressa resilienza femminile (sostenuta dal padre, dal contegno inclusivo). Ciò che sappiamo è quello che vediamo tramite quell’occhio incerto e curioso, quella presenza invisibile e quasi intangibile, a volte sentita e percepita (come dalla medium chiamata per una breve scena).

Ma è una presenza interna alla casa, ovvero il set, ed esterna ai personaggi, i protagonisti, che essa segue con estrema mobilità, passando dall’uno all’altro mentre raccoglie brandelli di informazioni, e sullo sfondo si manifesta la presenza di un serial killer alle prime armi (le cui assonanze fisiche con l’attuale presidente americano non credo siano del tutto innocenti) desideroso di prendere il controllo della vita degli altri, di sottomettere le ragazze sino a sopprimerle per il solo gusto di poterlo fare, usando la droga dello stupro per approfittarsi e uccidere.

Ed è un’intera serie tv che viene compressa in questo breve film dalle molte linee narrative, tutte accennate e seguite sino alle conclusioni ma con le premesse lasciate incerte. Perché, al di là del tema, del soggetto della prepotenza violenta, già scandagliato altrove con diversa enfasi (Tredici Adolescence ad esempio), quello che a Soderbergh sembra interessare maggiormente è l’horror della quotidianità, quelle pozzanghere putrescenti in cui annega la normalità, la famiglia, la società. Anche se pare recuperare il pitch (e l’ambientazione) della prima stagione di American Horror Story, con la casa infestata che intrappola ogni nuovo abitante, in una sequela infinita di morti violente, Soderbergh lo travisa volutamente perché la dimora e suoi fantasmi sono innocenti: è iel mondo esterno (che poi dilaga nella villetta) il vero mostro. E forse più dell’orrore, al regista interessa una suspense hitchockiana, che si articola tra Il sospettoNodo alla gola e Frenzy, in un crescendo di tensione che, da latente, diventa palese e insopportabile, senza dimenticare Manderley, l’Overlook di Rebecca.

Riprendendo il concetto di base di Shining con un luogo posseduto, ma reinterpretandone il procedimento di tallonamento dei personaggi con una mdp morbida e vagolante, il regista sceglie di non mostrare ciò che vedono i personaggi, quelle allucinazioni persecutorie che li trascinano verso la follia: in Presence non sprofondiamo mai nella mente e nelle sue deviazioni, ma ne vediamo chiaramente gli effetti. La casa maledetta è una normale villetta di periferia, non una magione persa nelle montagne, l’orrore è nei gesti e nelle parole, non nel delirio, il gotico è del tutto generico, mai troppo manifesto, raggelato nella distorsione della visione imposta dal grandangolare (esasperato rispetto a quello già presente in Kubrick) e con l’obiettività di una registrazione ineluttabile, partecipe quanto estranea. 

È in quella sincerità del punto di vista offerto allo spettatore, parziale e sconnesso, impotente per quanto attivo che si manifesta l’essenza del film, nella direzione dello sguardo in mezzo alla distrazione generale, nella ricerca di un quadro generale (lo sfondo è sempre a fuoco) e della verità di personaggi che guardano sempre altrove, il telefono o la tv o l’ipad, e che si nascondono a vicenda per non rivelare la propria verità o la propria natura. E la regia si limita a filmare, ossia a coreografare in lunghe riprese il gioco degli attori, tra entrate e uscite di stampo teatrale in interni asfissianti, mentre l’esterno è del tutto precluso (fino alla fuga liberatoria finale), un altrove da cui giungono sparute eco. Presencenon ha quasi primi piani, solo inquadrature d’insieme, generali, come una percezione acuita dalla profondità di campo che non lascia scampo, imprigiona i personaggi in una unità di luogo opprimente, totalizzante, in cui sono liberi di muoversi ma da cui non possono scappare.

La regia, quindi, è nello sguardo, come lo è metaforicamente sempre, mentre qui lo è anche letteralmente, e il film offre, nella sua semplicità, una perfetta translitterazione del termine stesso di “partecipazione cinematografica”, con lo spettatore presente in sala (o in salotto, ormai) ma interdetto all’interazione con il narrato, obbligato alla semplice e impotente osservazione a distanza;

solo allo spettatore, la presenza che è anche assenza, è concesso di vedere tutto senza toccarlo, come summa delle diverse e sofferte solitudini ritratte. Perché Presence, in fine, è un film sull’assenza di comunicazione e di sincerità, al di là della sua mera rappresentazione formale di normalità apparente.

 

 

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