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L'erede

Regia di Xavier Legrand vedi scheda film

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La recensione su L'erede

di barabbovich
8 stelle

Da un quarto di secolo Ellias Barnès (Grondin, pirotecnico) ha perso i contatti con il padre dopo ripetuti dissapori. Alla morte di quest’ultimo, eredita la guida di una prestigiosissima casa di moda. Ma proprio quando il suo nome sta per raggiungere la copertina delle riviste specializzate, è costretto a lasciare Parigi per raggiungere il Québec e vendere la casa paterna. Lì, però, lo attende una orribile sorpresa che gli cambierà la vita.

Dopo una prima mezz’ora un po’ sonnacchosa – segnata da defilé simbolici e da un ritmo contemplativo – l’opera seconda di Xavier Legrand (dopo lo stupefacente L’affido) prende forma con forza crescente come un apologo sulla nemesi, intesa in senso etimologico, ancora una volta coniugata con le mostruosità della violenza maschile. Il regista francese dimostra una sbalorditiva capacità di creare tensione disseminando indizi che si ricompongono con sapienza magistrale in un finale perfetto. È proprio nel climax che le inquietudini del protagonista – radicate in un conflitto edipico mai risolto col padre e covate silenziosamente per tutta la narrazione – trovano una risposta compiuta. Legrand affila con precisione chirurgica gli strumenti del thriller psicanalitico, orchestrando un meccanismo narrativo in cui la casa di famiglia si trasforma in una trappola simbolica, e l’eredità – più che economica – è quella di un destino tossico, paterno, ingombrante e forse, chissà, persino genetico. La sua regia tratteggia un personaggio spaesato, intrappolato tra il panico, l’asma e la paura che il male, oltre a farsi sistema, si tramandi come un mobile antico. Certo, qualche passaggio narrativo della prima parte non sembra indispensabile, ma l’ultima mezz’ora – sconcertante, se non devastante – restituisce senso e necessità all’intero racconto. La tassa da pagare, da bravo erede, è salatissima.

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