Regia di Kenji Mizoguchi vedi scheda film
Un'atmosfera incantata nella quale si intrecciano i destini umani, sospesa tra sogno e illusione. Mizoguchi compone un'elegia dolceamara sulla caducità della gloria, sull'illusione di ogni fuga dalla realtà, sul fragile equilibrio tra desiderio e disincanto.
Sin dalla frase di apertura, monito sulle fantasie che danno rifugio agli uomini, il film rivela la sua chiave di lettura come una meditazione sulla tensione tra realtà e idealizzazione, tra ciò a cui l'essere umano anela e ciò che il tempo inevitabilmente consuma.
Le sfumature sono molteplici, un film-mondo onnicomprensivo, un affresco denso di rimandi: il potere e il denaro, il legame tra uomo e donna, la morte e i fantasmi, la bellezza e la perdita, le seduzione dell'illusione e la durezza della terra. Dietro ogni gesto dei personaggi c'è il conflitto sotterraneo tra orizzonti romantici e radicamento nel mondo concreto, tra aspirazione e destino. Si toccano corde profondamente esistenziali, quasi kierkegaardiane, nella messa in scena del rapporto tra desiderio e responsabilità: i personaggi oscillano tra la rappresentazione di una vita etica fatta di sacrificio e consapevolezza e di una vita estetica fatta di gloria, sogni e illusioni.
Il conflitto tra mondo oggettivo e quello onirico-ideale è quindi il fulcro tematico del film, che trasporta questo contrasto in una dimensione eterna e atemporale, nella quale si consumano inesorabilmente le esistenze degli uomini.
Mizoguchi muove la sua regia con notevole maestria ed eleganza formale: lunghi piani sequenza, movimenti di macchina circolari, un fluire lento che avvolge lo spettatore in una temporalità dilatata, sospesa. La sequenza del viaggio sul lago ne è probabilmente l'apice: la battaglia che svanisce nella nebbia e insieme ad essa il mondo terreno sembra dissolversi, lasciando emergere un'altra dimensione, immateriale e senza tempo. Qui la tragedia umana incontra l'eterno.
La guerra, sembra suggerire il film, incombe come espressione più autentica della condizione terrena, fatta di lotte e di sangue, di fatica e di perdita. Ma il film non si limita alla narrazione lineare di una storia, la attraversa e la trascende, la sublima in immagini che oscillano continuamente tra realtà e sogno, tra l'esistenza e ciò che sempre la oltrepassa.
Le musiche, radicate nel folklore, si intrecciano alle sequenze sognanti e amplificano il senso di sospensione e di mistero. Le scenografie, i costumi e la luce: tutto rimanda direttamente ai racconti popolari del Giappone antico, come una trasposizione reale di un mondo mitico e lontano. Molte inquadrature evocano la pittura orientale, e non a caso il film si apre con immagini di paesaggi dipinti. Mizoguchi concepisce la narrazione come un rotolo di dipinti che si srotola davanti allo spettatore: ogni quadro si connette al successivo in un flusso circolare, riflettendo l'onnipresente dimensione onirica.
Siamo forse più vicini alla poesia degli haiku che al linguaggio cinematografico tradizionale. Nei silenzi e nelle dissolvenze, nella malinconia crepuscolare evocata dal titolo, la luna pallida come simbolo di un tempo che scorre e svanisce, la delicatezza di un mondo in bilico tra mito e realtà.
La perfezione e il rigore formale, la dimensione tematica universale, la potenza e la delicatezza espressiva e visiva. Mizoguchi rende potenzialmente infinite le possibilità espressive dell'immagine, e quindi del cinema. Il suo cinema non racconta solo storie, ma apre varchi, sospende il tempo e lo spazio toccando l'eternità.
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