Regia di Rainer Werner Fassbinder vedi scheda film
Tratto dal romanzo omonimo di Jean Genet, “Querelle de Brest” è stato l’ultimo film diretto dal grande Rainer Werner Fassbinder,  prima della sua morte a causa di un presumibile abuso di droghe. Arrivò  sugli schermi del Festival di Venezia nel 1982, pochi mesi dopo il  decesso dell’autore, sull’onda di fragori sensazionalistici a causa dei  contenuti e di alcune scene provocanti.
La pellicola racconta le vicende del marinaio Georges Querelle (Brad  Davis), sbarcato a Brest con la nave “Vengeur” a capo della quale  governa il tenente Seblon (Franco Nero), invaghito dalla bellezza di  Querelle. Ma nel porto della cittadina francese il giovane uomo di mare farà la conoscenza dell’ambiguo Nono (Gunther Kaufmann), gestore, insieme alla moglie Lysiane (Jeanne  Moreau), di un bordello famigerato chiamato “La Feria”, e incontrerà suo  fratello Robert, amante della consorte di Nono. In un paese costiero  tutto ricostruito in studio come fosse un porto di una città  equatoriale, Querelle vivrà avventure amorose, intrallazzi ricettatori,  corteggiamenti subdoli e meschini tradimenti.
La macchina investigativa dei sentimenti messa in moto da Fassbinder  ci conduce, come naufraghi stremati, su queste rive perigliose, a  diretto contatto con uno dei personaggi più sofferti della filmografia del regista tedesco.  Querelle, infatti, attraverso una serie di vicende complicate e un po’  sconclusionate “corre il pericolo” di… trovare sé stesso, di sapere in  definitiva qualcosa di più sulla sua identità. E’ egli un angelo, un  assassino, un martire, un ladro, un diavolo tentatore? Forse tutte  queste personalità allo stesso tempo. 
Brad Davis, qui al suo meglio per doti recitative e prestanza fisica, regala  a Querelle una perfetta aderenza ai progetti contenuti nel romanzo di  Genet e a quelli cinematografici pretesi da Fassbinder.  Di statura media, rigoroso, ben proporzionato, con gli occhi  sprezzanti, i lineamenti regolari, l’espressione severa del viso, i suoi  modi glaciali e ombrosi, Davis riesce a sembrare naturalmente  impenetrabile, come vuole il copione.
A fare da sfondo, le scenografie, dicevamo, opportunamente e  volutamente finte, ricostruite in studio. L’arredamento ha rilievi  barocchi e misteriosamente conturbanti (gli specchi e i vetri  che disseminano il set sono “marchiati” con stampe e disegni  particolarmente increspati ma anche con figure fallocentriche ed  esplicite scene di sesso). Disegni osceni di membri turgidi  etichettano gli angoli del porto e la zona delle latrine, dietro alla  quale corrono i desideri repressi del tenente, in perenne attesa di un  allarme che suoni a risvegliare la sua coscienza. D’altronde  le  dinamiche che legano tra loro i personaggi hanno tutte un’origine  sessuale e nascono da un unico fondamento, il desiderio.
La fotografia si presenta con una grandiosa resa cromatica,  evocatrice di un’atmosfera irreale e simbolica, in grado di catturare  la percezione dello spettatore e di ammaliare, così, le sue sensazioni. I  colori virano dal giallo (quello dominante) al rosso (celebrativo di  scene passionali), al blu (più marginale). Le immagini scorrono spesso  infuocate come a invocare ardenti propositi di decadenza e morte. Anche i costumi sono realizzati in modo fastoso e stravagante,  tra lustrini, paillettes, anelli e pendagli. Nonostante indossi alcuni  di questi monili, il personaggio di Lysiane, interpretato da una matura  Jeanne Moreau, non è per niente carismatico, attraversato com’è da un  insieme di prototipi: amante, amica, veggente e madre.
Tra marinai affaccendati e sudati, senza maglietta o in canotta,  alcuni raffigurati con le dovute guance dure e incavate, fa capolino il  sesso: stringere un uomo contro il proprio corpo nudo e risplendente è  il desiderio di molti fra i protagonisti. La scena della sodomizzazione di Querelle da parte del possente e animalesco Nono è il trionfo della carnalità;  tra dolore fisico e morale, e con la saliva grondante sui corpi  accaldati, entra di diritto a far parte dell’immaginario omosessuale.  Ma, al contrario di Querelle, non c’è nessuna passione in Nono: lui  gioca senza voler inquinare i sentimenti. Pretende (e ottiene) solo  divertimento, senza alcuna complicazione; ancora una volta l’amore è più  freddo della morte.
Il film è disseminato da citazioni e riferimenti letterari, tra l’etica di Plutarco e quella Genetiana. “Ogni uomo uccide ciò che ama”,  canta Lysiane in una delle più significative scene del film: per l’uomo  sembra possibile amare solo con la fantasia gioiosa e rapida del  bambino e, dopo il “crimine” della crescita e della presa di coscienza,  gli è concesso unicamente di penetrare in un mondo di sentimenti  violenti.
Questa continua letterarietà che traspare per tutta la pellicola,  innalza il film a totem estremamente intellettualistico e cerebrale,  allettante dal punto di vista culturale ma senza anima. Con “Querelle”  abbiamo a che fare con infinite strutture simmetriche, propense a un  turbinio di avvenimenti e di concetti. Il risultato è dubbio; ora esplicativo, ora intuibile o epidermico.  Quella che è mancata a Fassbinder è la coesione tra fatti e  riflessioni: il gioco degli sdoppiamenti voluto dal regista è troppo  dichiarato e, nell’ultima mezz’ora del film, compiaciuto e noioso.
Da rimarcare la pubblicazione dell’opera in DVD,  rieditata circa 3 anni fa: oltre al film, un’interessante intervista a  Franco Nero (che racconta di episodi curiosi sul set e fuori) e un  prelibato cortometraggio con Fassbinder protagonista, intitolato  “Chambre 666”, dove il regista e attore tedesco ci saluta (quasi come  fosse un presagio) da un’anonima stanza-avamposto.
Per ricordare il genio e il vulcano di idee che è stato quel talento debordante di Fassbinder,  è necessario rinnovare la visione delle sue opere, prodighe di  discussioni e confronti. La sua febbrile e pressante figura avrebbe  avuto ancora molto da dire sulla società dei nostri tempi.
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