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Superman

Regia di James Gunn vedi scheda film

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La recensione su Superman

di lussemburgo
6 stelle

 

Nel rifondare l’universo cinematografico della DC Comics, James Gunn, già regista della trilogia (e mezzo) Marvel dei Guardiani della Galassia, riparte dal caposaldo originale dei supereroi, di carta o di pellicola: Superman. E nel farlo rimanda volutamente (e automaticamente) al primo vero film del genere, all’omonima pellicola di Richard Donner, da cui mutua la scanzonata ironia e il tema musicale di Williams (o la scenografia del Daily Planet, ad esempio) e parte dei caratteri dei titoli. Di fatto, con questa nota nostalgica e cinefila, Gunn lavora soprattutto contro il recente intervento di Snyder, che aveva appesantito di retorica e cupa sentenziosità il mondo DC con abbondanza di grigi e di ralenti, drammi enfatizzati e una sadica soddisfazione nella distruzione architettonica delle città, come un Michael Bay monocromatico. Non a caso, quindi, il film parte con il conteggio dei danni ai palazzi cittadini, al tentativo di contenimento dei costi (e vittime) da parte dell’eroe che, infatti, torna a vestire i colori sgargianti del modello originale (e non i toni nerastri indossati da Cavill), mentre la narrazione inizia in medias res con una rissa tra superpotenti metaumani, alieni o mutati, in cui il protagonista sembra soccombere e deve tornare alla polare Fortezza della solitudine (identica al film degli Anni 70, con i cristalli nel ghiaccio) per riprendersi e tornare a combattere.

Poiché la storia del personaggio è ben nota, non serve ribadire l’origine di Superman, la sua adolescenza tra gli umani in campagna, il trasferimento a Metropolis sotto le mentite spoglie del giornalista Clark Kent e il rapporto amoroso con Lois Lane. Tutto, in qualche modo, è stato già detto e il film lo dà per scontato, ricostruendo i brandelli del passato dalla sua manifestazione nel presente. Così la relazione con Lois diventa una screwball comedy in cui il sesso è sottinteso e i ruoli nella coppia vengono sempre rimessi in discussione, e direttamente alla commedia classica hollywoodiana deriva anche il fraseggio rapido degli scambi, eco la Signorina Maisel di Rachel Brosnahan, con la messa alla berlina dei cliché del personaggio, a cui bastano degli occhiali per non essere riconosciuto o le persistenti interviste al suo alter ego che rischiano di far insospettire qualcuno. I genitori Kent entrano in scena quando Clark necessita di amorevoli cure, ma si incarnano in attori che non evocano l’eroismo western di un passato (cinematografico) idealizzato (Glenn Ford da Donner, Kevin Costner chez Snyder) bensì da caratteristi per lo più televisivi. Così anche la redazione del “Daily Planet” diventa una workplace comedy dai toni brillanti con personaggi vivaci dalle caratterizzazioni molto diverse da quelle precedenti (Jimmy Olsen, seduttore disinteressato alla conquista invece che giovanotto imbranato, ad esempio).

È però soprattutto l’impianto generale a subire una forte modifica, attualizzandosi radicalmente; sebbene non offra una precisa presa di posizione politica, il film mette alla berlina e sottolinea il pericolo che magnati tecnologici aspirino all’onnipotenza (anche, e principalmente, economica), sacrificando addirittura il pianeta per soddisfare le proprie ambizioni ego-maniacali, abituati a governare il mondo e le persone come burattinai. Il Lex Luthor di Nicholas Hoult perde la comicità derisoria di Gene Hackman per assumere tratti suprematisti follemente inquietanti, che diventano divertenti per l’assurdo della loro estrapolazione (la gelosia nei confronti dell’alieno), anche se il film sembra fare una crasi tra le attuali guerre in corso, con un despota post-sovietico e un popolo oppresso sul liminare del deserto. A cui si aggiunge il moderno gioco della manipolazione delle informazioni (le scimmie-bot che trollano sono esilaranti), operata con intenti malevoli, capaci di sovvertire il senso di un gesto o di una parola a scapito dell’avversario di turno. Se è facile intravedere Elon Musk come altri tecnocrati digitali autoritari sotto il cranio calvo di Luthor, la critica del regista non risparmia il pubblico, incapace di giudizio effettivo e autonomo, e nemmeno lo stesso supereroe, non a suo agio nel gestire la propria reputazione.

L’ingenuità di Superman è pertanto direttamente proporzionale alla sua potenza fisica, ed è perfettamente rappresentata dalle fattezze quasi infantili e naïf di David Corenswet che si trova, letteralmente, a combattere contro sé stesso e la propria immagine, a cercare di mostrare la sua vera identità, di dimostrare una innocente ‘americanità’ da sempre inseguita, per essere più terrestre dei suoi concittadini, più normale degli altri, meno alieno, pur non volendo mai negare questo aspetto. Ma, forse, l’innocenza si è persa da tempo oltre oceano, soprattutto quando l’apparenza importa e pesa di più della verità, quando la politica è decisa dei sondaggi e dalla soddisfazione dell’elettorato. Perché tutti sono ormai solo pubblico di uno spettacolo generalizzato, che è, di volta in volta, televisivo o militare, supereroico o quotidiano, informativo o distruttivo. Quella è un’America d’antan, didascalica quanto vintage, che ha lasciato il passo (dell’oca?) a ciuffi dorati, a braccia alzate e a sogni di predominio mal mitigati da una diplomazia in estinzione.

E per non prendesi troppo sul serio, Gunn aggiunge al film una pletora di personaggi secondari decisamente sopra le righe, dal cane Krypto, del tutto ingestibile, a Supergirl, eroina in cerca di normalità festaiola (interplanetaria, dato che sulla Terra è troppo potente), con gli assistenti robotici di Superman, versioni meccaniche dell’Alfred di Batman (nella super-caverna di ghiaccio), improbabili supereroi come la Lanterna Verde di Nathan Fillion, egocentrica e vanagloriosa (che si vuole guida della ‘Justice Gang’), o la strillante e superficiale Hawkgirl di Isabel Merced, assieme alla versione volante di Ironside dal nome improbabile (Mr Terrific), capace di manipolare la materia con droni sferici tuttofare.

Sempre più a suo agio con i freak che con gli eroi canonici, come dimostrato dalla trilogia della Galassia o dalla Suicide Squad con Idris Elba, Gunn qui rinuncia al tripudio immaginifico della precedente incursione nel mondo DC, in cui ogni inquadratura voleva essere originale e ironica, per una regia più ordinaria e un film più morigerato, serio sullo sfondo sebbene faceto nella forma, più incline al dialogico che all’azione. Il regista riesce comunque a dissipare in rivoli secondari e variamente farseschi quasi ogni elemento drammatico, e fa dello stesso supereroe eponimo un personaggio sopra le righe, dall’ingenuità disarmante prendendo alla lettera la sua ricerca dell’innocenza che esacerba fino alla caricatura, così come amplifica la malignità egoistica della sua nemesi, senza dimenticare un’apocalisse in fieri che solo il superuomo (se degnamente coadiuvato) può fermare, con cui riporta il film ai fasti di distruzione ambientale del suo predecessore: infatti dopo i titoli di coda, Superman nota che la ricomposizione non è stata perfetta e l’incrinatura di un edificio si nota ancora. Così il film, nella sua ambizione all’ overstatement” corrosivo, alla presa in giro costante dei suoi assunti, seppur radicati nella stretta attualità, finisce per non assecondare le proprie intenzioni, diventa maldestro e incerto in quanto cinecomix perché non riesce bene a coniugare spettacolarità e acidità, critica e politica, la narrazione al primo grado con la sua negazione auto-ironica, sprecandosi un po’.

E il pubblico americano, commosso e allietato dal Krypto digitale, è uscito dalle sale ed è andato ad adottare cuccioli uguali, confondendo il reale con quella disillusa finzione che voleva ritrarlo con divertito sarcasmo, confermandosi più illuso, ingenuo e fittizio del suo supereroe di riferimento.

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