Un film tecnicamente impeccabile ma narrativamente disorientante, e per molti versi anche frustrante.
Alex Garland (quest'anno l'apprezzato horror
28 anni dopo), che firma sia la regia che la sceneggiatura, costruisce un racconto di guerra dal realismo impressionante, fotografato con potenza dall'inglese
Rob Hardy (
Ex Machina) e sostenuto dagli effetti visivi della DNEG (
J.D. Schwalm e
David Simpson), la stessa squadra che ha lavorato su
Dune e
Blade Runner 2049. Ma dietro la perfezione tecnica si apre un vuoto emotivo che lascia lo spettatore freddo, distante, quasi escluso.
Il film segue il viaggio di una fotografa di guerra, interpretata da una ispirata
Kirsten Dunst (nota sin da bambina per
Intervista col vampiro,
Il giardino delle vergini suicide; più di recente è apparsa in
Midnight Special e
Marie Antoinette) che offre un’interpretazione di alto livello, attraverso un’America dilaniata da una nuova guerra civile. Con lei c’è Jessie, la giovane apprendista reporter (interpretata da
Cailee Spaeny – emergente attrice statunitense, già vista in
Priscilla per la quale ha vinto la Coppa Volpi al Festival di Venezia, e in
Alien: Romulus) che rappresenta un’ingenuità che si infrange contro l’orrore. C’è l’altro reporter, il più impulsivo e cinico, interpretato da
Wagner Moura (attore brasiliano, celebre per
Tropa de Elite e per il ruolo di Pablo Escobar nella serie
Narcos; prossimo protagonista in
The Secret Agent, thriller politico ambientato negli anni ’70 in Brasile) che cerca di navigare quel terreno morale instabile. E infine il giornalista più anziano e riflessivo, che si sacrifica nel finale ed è interpretato da
Stephen McKinley Henderson (veterano del teatro e del cinema, noto anche per ruoli in
Fences,
Lady Bird,
Lincoln; tra poco lo vedremo in
The Dutchman nel ruolo del Dr. Amiri) – la sua morte dovrebbe essere il momento di massimo impatto, ma nel film quel sacrificio svanisce quasi nell’indifferenza.
Garland mette in scena la disumanizzazione dell’uomo moderno, anestetizzato dalla violenza e soggiogato da una propaganda che trasforma la verità in arma. Ed è impossibile non leggere in questa rappresentazione un riferimento agli Stati Uniti dell’era Trump, a quella comunicazione perennemente incendiaria, fatta di slogan e divisione, di campagna elettorale continua. Un linguaggio politico esasperato, che ha lasciato ferite profonde nel corpo sociale americano e che qui diventa la matrice di un conflitto non più soltanto ideologico ma fisico, devastante.
Le sequenze finali, con l’assalto a Washington e la caccia al presidente, sono girate con grande maestria visiva, ma perdono la direzione morale. Non si distingue più chi combatte per cosa, chi difende e chi opprime. Non nel senso profondo dell’ambiguità, ma in quello di una scrittura che smarrisce il senso. Garland sembra più interessato a un discorso teorico che a un racconto vivo, e il film finisce per disumanizzarsi come i personaggi di cui parla. Il risultato è un'opera senza cuore, fredda come la società che rappresenta. Qualcosa che affascina lo sguardo ma non tocca l’anima, e che lascia la sensazione di aver assistito a una dimostrazione di bravura più che a un racconto. Civil War è un’esperienza visiva potente, ma anche un ammonimento: quando la propaganda e la polarizzazione si sostituiscono al dialogo, anche l’arte rischia di perdere la propria umanità.
Voto 5,3; rivedibilità 5/10
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