Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
Sembra di essere sempre sul punto di entrare dentro l’intimità dei personaggi, nelle camere da letto, in quelle segrete, le stanze del potere, quella della prigionia di Moro, quelle in cui vivono in clandestinità i brigatisti eppure ne rimaniamo fuori, in un esterno costante che diventa il fulcro della narrazione, quell’altrove ormai lontano che trova un suo peso nel semplice manifestarsi come trama, come un intreccio talmente ben costruito, con i suoi misteri e i suoi inganni, che ci si chiede se davvero non ci sia stato dietro di esso una mente che l’abbia accuratamente elaborato e sul quale ancora abbiamo dubbi e domande, echi di inquietudini svanite, risposte mai ricevute.
Doveva essere un periodo di estrema confusione o di epocale lucidità quello degli anni settanta, con una generazione che una volta prese le armi non ha poi più ben saputo cosa farci, se non uccidere e fantasticare su una rivoluzione che non sarebbe mai arrivata.
Bellocchio pare avere in parte nostalgia di quegli anni, della lotta studentesca, del movimento, degli slogan, degli striscioni eppure il mondo dei brigatisti appare ancorato ad una logica rivoluzionaria che adesso ci arriva logora e stantia, distante e quasi incomprensibile mentre le dinamiche del potere assumono quasi un carattere metafisico, in cui tutti diventano pedine, per poi materializzarsi in una ricomposizione filmica dove si cercano di ricucire le ferite lasciate, per lo meno da un punto di vista del racconto, ritornando, episodio dopo episodio, sugli eventi cruciali, concentrandosi, di volta in volta, sui vari protagonisti: Moro e famiglia, gli amici democristiani, il Papa e la chiesa, i membri delle BR.
Sempre attenti alla ricostruzione storica della fine degli anni settanta nella quale non si è voluto inserire quasi nessun elemento reale d’archivio: le foto, i giornali, gli spezzoni televisivi sono ricreati quasi a lasciare anche i documenti dell’epoca fuori, perché tutto torni a essere finzione e allo stesso tempo testimonianza, il cinema come strumento del racconto, come riepilogo della Storia (quando ogni epilogo sembra impossibile), ma per quale scopo? Con quale finalità? Ricordare per chi non c’è stato o commemorare quella stagione per chi l’ha vissuta?
Sterminata ogni identità sociale e politica, l’oggi parla chiaro, le ideologie sono morte e il mercato detta le leggi di ciascuno Stato. E allora ci si abbandona alla capacità registica di Bellocchio e si segue la sua serie proprio in quanto tale, degli originali non ce ne frega più niente, li abbiamo dimenticati, rimane la messinscena corale di una tragedia, di un massacro, di generazioni che portate a un confronto hanno rifiutato il dialogo per il monologo delirante della lotta armata o di quello gelido della fermezza. A nulla è servito il sangue nelle strade, se non a darci le coordinate di un (com)plot(to) di magnifica stratificazione e profondità, in cui ognuno si è ritrovato vittima e carnefice, tanto degli altri quanto di sé stesso.
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