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Black Phone

Regia di Scott Derrickson vedi scheda film

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La recensione su Black Phone

di Letiv88
7 stelle

Sottovalutato, sì. Ma solido, ben recitato e capace di restare impresso. Black Phone non reinventa l’horror, ma lo umanizza. E tanto basta per dargli il rispetto che merita.

Black Phone (2022) è uno di quei film che sembrano scivolare via nel silenzio generale, ma meritano molta più attenzione di quella ricevuta. In Italia è passato spesso inosservato o trattato con superficialità, mentre all’estero ha ricevuto recensioni più attente e un riconoscimento maggiore per la sua tensione e atmosfera. Scott Derrickson torna all’horror dopo l’esperienza blockbuster di Doctor Strange (2016) e lo fa con un’opera più intima, malinconica e disturbante di quanto ci si aspetti. Non è un capolavoro, ma nemmeno il titolo “minore” che molti hanno liquidato troppo in fretta. Il risultato è un racconto teso e dal tono cupo, che mescola l’horror sovrannaturale al dramma della sopravvivenza.

Siamo alla fine degli anni ’70, in un quartiere americano qualunque, dove la sparizione di alcuni bambini tiene tutti con il fiato sospeso. Finney (Mason Thames) è un ragazzo timido, introverso, che vive con la sorella Gwen (Madeleine McGraw) e un padre alcolizzato e violento (Jeremy Davies). Un giorno viene rapito da un uomo mascherato, il misterioso “Rapace/Grabber” (Ethan Hawke), che lo rinchiude in uno scantinato insonorizzato. L’unico contatto con l’esterno è un vecchio telefono nero, apparentemente scollegato, che inizia però a squillare: all’altro capo ci sono le voci delle precedenti vittime, pronte a guidarlo nella fuga.

Derrickson dirige con misura, lasciando che la tensione nasca dalle situazioni più che dagli effetti. L’ambientazione anni ’70–’80 è resa con cura e autenticità, tra colori spenti e una luce polverosa che restituisce il senso di abbandono e inquietudine di un’America periferica. Ogni inquadratura è pensata per far sentire lo spettatore intrappolato insieme al protagonista: pochi spazi, silenzi pesanti e una violenza che in alcune scene esplode con forza, senza risparmiare nulla. È un film che non urla la paura, la lascia crescere lentamente fino a diventare opprimente.

Il regista torna al suo terreno più congeniale, quello dell’orrore intimo, legato al trauma e alla memoria. Qui abbandona gli eccessi visivi e i meccanismi più commerciali, per concentrarsi su un male quotidiano, tangibile, che nasce dentro le case e le famiglie. La regia lavora di sottrazione: il terrore non sta tanto in ciò che il Rapace fa, ma in quello che lascia intendere. Derrickson evita di mostrarlo troppo, preferendo far crescere la paura nei silenzi e negli sguardi, nei momenti in cui non sai se sta per comparire o meno. L’uso degli spazi chiusi e della luce, sempre tagliata e opprimente, costruisce un’atmosfera di prigionia che richiama il realismo sporco del cinema anni ’70, ma filtrato da una sensibilità moderna.

Tratta dal racconto di Joe Hill (figlio di Stephen King), la sceneggiatura è firmata da Scott Derrickson e C. Robert Cargill. La storia mantiene una struttura lineare ma efficace. Il sovrannaturale non è un pretesto per spaventare, ma un mezzo per far emergere il trauma e la perdita dell’innocenza. Il telefono diventa simbolo di connessione con il passato, con chi non c’è più ma prova ancora a salvare chi resta.

Derrickson e Cargill, già coppia in Sinister (2012), trovano il giusto equilibrio tra paura e sentimento. Il film non corre mai: lascia respirare i personaggi, dà spazio al silenzio e alla paura che cresce per accumulo. L’horror diventa quasi un linguaggio interiore, una forma di dialogo tra vivi e morti, adulti e bambini, carnefici e vittime. Dietro la trama di rapimenti e fantasmi c’è una riflessione più ampia sulla sopravvivenza emotiva e sulla necessità di ascoltare le voci — interiori o reali — che ci insegnano a resistere.

Ethan Hawke, dietro la maschera del Rapace, offre una performance inquietante e calibrata, giocata tutta sui gesti e sulla voce. Riesce a essere disturbante anche senza mostrare quasi mai il volto, scelta che amplifica il mistero e la minaccia del personaggio.

Mason Thames sorprende per intensità e naturalezza, reggendo da solo gran parte del film e rendendo credibile la trasformazione da vittima impaurita a sopravvissuto determinato. Bravissima anche Madeleine McGraw, che porta un’energia sincera e un leggero tocco di ironia in un contesto cupissimo. Da menzionare infine Jeremy Davies, perfetto nel ruolo del padre alcolizzato e violento: una figura tragica che aggiunge peso emotivo e rende ancora più reale il dramma familiare del film.

Oltre ai protagonisti principali, James Ransone interpreta Max Shaw, il fratello del Rapace: un uomo eccentrico e dipendente dalla cocaina che vive inconsapevolmente con il fratello serial killer. La sua scoperta della verità e la tragica fine contribuiscono a intensificare la tensione e a delineare ulteriormente la psicologia disturbata del Rapace.

 

Il film è tratto dall’omonimo racconto di Joe Hill, figlio di Stephen King, pubblicato nella raccolta Ghosts (titolo originale 20th Century Ghosts). Non si tratta di un dettaglio secondario: nel racconto si respira già quell’universo kinghiano fatto di infanzie spezzate, quartieri anonimi e mostri che si nascondono dietro la porta accanto. La storia è stata scelta da Derrickson perché gli ricordava la sua infanzia a Denver negli anni ’70, quando molti bambini sparivano davvero. Questo trauma collettivo diventa la radice del male nel film: non un’entità soprannaturale fine a sé stessa, ma un’ombra nata dalla paura quotidiana. Il racconto è parte di una raccolta di quindici storie, pubblicata originariamente nel 2005 e poi riproposta nel 2022 con l’edizione “movie tie-in” in concomitanza con l’uscita del film. In Italia, il libro è arrivato nel 2009 come Ghosts, e più di recente nel 2022 è stato ripubblicato con il titolo Black Phone – Mai parlare con gli sconosciuti, legando il racconto all’adattamento cinematografico e dando modo ai lettori di confrontare la tensione della pagina con quella sullo schermo.

Uno degli aspetti più studiati del film è stato il design delle maschere del RapaceDerrickson e il team di Blumhouse hanno voluto che ogni maschera trasmettesse emozioni nette — disperazione, gioia, nullità — in maniera esagerata, richiamando le maschere tragiche e comiche dell’antico teatro greco. La scelta della maschera senza bocca nacque dopo l’ingaggio di Hawke, per permettere al volto dell’attore di restare visibile in alcune scene e amplificare il mistero del personaggio. La realizzazione fu affidata a Callosum Studios, fondato dai truccatori prostetici Jason Baker e Tom Savini: crearono un massimo di 30 maschere per acrobazie, scene specifiche e riprese in sicurezza durante la pandemia, a partire da calchi del volto di Hawke, lavorando con materiali diversi come fibra di vetro, resina, feltro e lattice. L’ispirazione per il design venne da maschere storiche, bambole antiche e film classici, come Mr. Sardonicus (1961) e L’uomo che ride (1928), per dare al Rapace un’espressività terrificante ma iconica.

Black Phone è un film imperfetto ma sincero, che va oltre la semplice paura per raccontare coraggio, perdita e speranza. Non ha bisogno di jumpscare o sangue a fiumi: la tensione nasce dal silenzio, dall’attesa e dall’idea che il male possa abitare dietro la porta accanto. Forse molti si aspettavano un horror più convenzionale, ma quello che Derrickson costruisce è qualcosa di diverso: un incubo emotivo che resta sotto pelle.

Black Phone (2022): Trailer ufficiale italiano

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