Regia di Joachim Trier vedi scheda film
Julie va verso i trenta; madre fin troppo permissiva, padre fin troppo assente, la ragazza ha tentato varie carriere scolastiche senza successo a causa della sua incostanza. Parimenti è passata di partner in partner senza soluzione di continuità fino a incontrare Aksel, una dozzina di anni più grande di lei, fumettista cinico e spietato, ma equilibrato e riflessivo come uomo. Dopo qualche anno insieme, però, Julie si ritrova a lasciare Aksel, di nuovo insoddisfatta, per mettersi con Eivind, apparentemente meno affine a lei.
Tra i pregi di questa pellicola, il sesto lungometraggio del danese Joachim Trier – nessuna parentela con Lars – e il suo quinto a soggetto dopo il documentario Den andre Munch del 2018, c’è sicuramente la solidissima tenuta del racconto che non concede troppe pause e riflessioni lungo l’intero arco delle due ore e dieci di durata del lavoro: il ritmo è sempre alto, il montaggio rapido e la mole narrativa è notevole, specie se si considera che i personaggi fondamentali del film non sono più di cinque o sei. E, in primis, va sottolineata la capacità del regista e sceneggiatore (insieme a Eskil Vogt) di tratteggiare un personaggio così complesso e così vivo come quello della protagonista Julie, specchio delle fragilità e delle idiosincrasie, delle nevrosi della sua contemporaneità. La sua intera esistenza si svolge nel segno dell’indecisione e della più ferma volontà di rifuggire da qualsiasi responsabilità: la ragazza è intelligente, studiosa, volonterosa sul lavoro, appassionata nei legami affettivi, ma nulla sembra convincerla fino in fondo, mai. C’è sempre quell’elemento di insoddisfazione che, dopo un po’ di tempo, la porta a smontare tutto ciò che ha costruito, senza approdare mai ad alcunché di concreto, di stabile, di definitivo. Julie è l’epitome della generazione dei nativi digitali, di coloro che sono nati negli anni ’90 del ventesimo secolo – ma perché debba essere quella ‘persona peggiore del mondo’ del titolo, francamente sfugge. Anche perché l’unico personaggio nel film a utilizzare questa precisa definizione è Eivind, parlando di sé stesso: un depistaggio voluto o un errore grossolano? Difficile pensare alla seconda cosa, data l’ottima scrittura del copione, che sul finale si permette peraltro di citare anche una notoria battuta di Woody Allen (“Non mi interessa continuare a vivere nelle mie opere, voglio continuare a vivere nel mio appartamento”); quanto ai difetti del film, poi, non si possono sorvolare due cose davvero importanti. La prima è il finale eccessivamente strappalacrime, con tanto di chiusura sulle note di Aguas de março, che in concreto dice davvero poco, ma lo fa con un carico di pathos esagerato che sovrasta i contenuti veri e propri della scena conclusiva. La seconda è l’inefficacia del bilancio esistenziale che va a chiudere l’opera, considerando che si sta pur sempre parlando di una persona di trent’anni appena: va bene tutto, ma Julie ha ancora l’intera vita davanti e sembra un filo prematuro tirare delle somme a questa età. Renate Reinsve, Anders Danielsen Lie e Herbert Nordrum i tre attori principali; Trier è anche produttore esecutivo del lavoro. 6,5/10.
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