Regia di Arthur Harari vedi scheda film
****, uno dei migliori film degli ultimi 5 anni. 166' che non pesano ma ti avvincono fino alla fine. Come diretto da Herzog(che lo ha cercato di dirigere per tanti anni la vicenda dei 30 anni-gli ultimi due completamente da solo- nella giungla dell'isola di Lubang nelle Filippine, di Onoda, dal suo primo libro "Io non mi arrendo"[1975], e vi ha scritto un capitolo del suo di libro), quando era veramente Herzog e non bollito dalla vita agiata nel lusso in America.
Hiroo Onoda era(1922-2014) un soldato giapponese nella WWII, di stanza su questa isola delle Filippine verso la fine del conflitto, nel 1944-'45 e inizialmente assieme a tre commilitoni(il primo Soichi Shimada morirà in uno scontro armato con dei contadini nei primi nel 1954, il più Yuichi Akatsu giovane si era consegnato arrendendosi nel 1949, l'ultimo Kozuka Kinshichi verrà arpionato da dei pescatori nel 1972 due anni prima della consegna finale dello stesso Onoda), con la missione segreta di resistere a tutti i costi all'invasione americana. Nessuno avrebbe potuto sospettare, tuttavia, che avrebbe portato questa missione fino alla sua conclusione definitiva, prolungando la sua resistenza solitaria per anni, ben 29 anni dopo la resa del Giappone. È una storia delle storie da sempre più incredibili degli anni settanta e con cui come molti altri della mia generazione sono cresciuto fin dai tempi delle scuole, anche se già diversi altri ''soldati-fantasma" giapponesi si erano arresi, consegnati, o furono uccisi negli anni cinquanta e sessanta(e Onoda non fu per pochi mesi neppure l'ultimo ad arrendersi almeno ufficialmente, ma il penultimo), degna di essere ricordata e raccontata con un film internazionale di queste ambizioni. Forse facendo passare troppo tempo(Onoda ha però avuto la fortuna di vivere altri 40 anni fino ai suoi 91) dal 1975, ma comunque evitando con intelligenza ciò che sarebbe stato facile e scontato adottare, ovvero un approccio puramente pacifista, e condannare la follia dell'indottrinamento militare e la paura inculcata dall'addestramento, del "nemico", nella mente di quest'uomo, di questi uomini, senza considerare altri elementi del loro contesto, della loro educazione e delle loro psicologie. Il messaggio finale è chiaro, ma il percorso che lo precede è complesso. Da qui la sua ambiguità e profondità drammatica, che si presta molto bene a un lungometraggio, qui più intimo che critico, di ben 166'. Perciò abbastanza travisato da chi lo critica perché non vi ritrova le motivazioni del furore guerriero e unico nipponico, che sarebbe per chi troppo ammalato di "giapponesità" da fondamento per la comprensione di questa storia e dei personaggi, come praticamente di ogni cosa che rasenti l'unicità dell'essenza nell'essere giapponesi, e soprattutto dello stesso, e cosi unico, Paese.
È così che invece il regista francese Arthur Harari l'ha affrontata nel suo secondo lungometraggio dopo il noir autoriale girato in Belgio "Diamant noir" nel 2016, e che aprì la sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes nel 2021. Co-prodotto da Matteo Rovere con una piccola casa di produzione italiana, e pure dalla Rai che non mi sembra in questi quattro anni vi abbia dato gran visibilità in nessun canale distributivo, forse mi sbaglio io, o forse solo perché è un film di nazionalità principale francese . La prima cosa che però colpisce di questo lungometraggio, oltre alla sua grande ma non senza fondamento, ambizione intrinseca, è la sicurezza e la pazienza naturalistica con cui sviluppa la sua storia, il che è sorprendente in un regista e co-sceneggiatore ancora abbastanza giovane(1981), che osa affrontare un luogo e dei personaggi stranieri per non dire quasi alieni alla sua cultura e condizione privilegiata, per non parlare dell'ambientazione storica stessa.
Ciononostante, Harari non mostra alcuna carenza di supporti forse anche grazie ai validissimi collaboratori, eccellenti tutti gli attori giapponesi sempre nella loro lingua, come alla strepitosa, polifonica e internazionale colonna sonora, al di là delle ricerche a cui potrebbe aver avuto accesso. Da un punto di vista puramente cinematografico, ha chiaramente preso nota dei classici, poiché l'influenza del citato Herzog, ma ovviamente Kurosawa, ovviamente, e per ambientazione e "misure" David Lean, è evidente. Il film dura quasi tre ore, combinando flashback ed ellissi per narrare diversi decenni nella vita di questo soldato e dei suoi compagni. Ma il ritmo rimane invidiabile, e non lo puoi lasciare fino di arrivare alla fine in una sola visione, grazie a uno stile di montaggio ponderato che impiega anche transizioni classiche, come le dissolvenze; e a un approccio piuttosto ortodosso all'inquadratura, con posizioni della macchina da presa molto precise (soprattutto nelle composizioni con i punti di riferimento situati in vari punti all'interno dell'inquadratura stessa), che consentono una direzione sempre coerente dell'azione. Non mancano nemmeno momenti di ironica mestizia, derivanti dalla natura surreale della situazione (colta da Sergio Corbucci e John Fujioka nel 1981), che alleggeriscono la sempre grande tensione drammatica, tragica, della vicenda. D'altro canto, ci sono alcuni dettagli inverosimili che non andarono proprio così nella vicenda vera e non adattata, soprattutto uno verso la metà del film che lascia un retrogusto leggermente amaro, un po' frustrante data la forza complessiva della narrazione. In ogni caso, "Onoda- 10000 notti nella giungla" è davvero denso di virtù, seguendo le orme di quell'epoca ed epica cinematografica che lo ha preceduto e accennata sopra, che fosse di guerra o meno, riuscendo così a offrire una prospettiva al tempo stesso lirica e cruda, su un paesaggio umano, storico e naturale, che sembra congelato nel tempo. Ultimi trenta minuti dopo l'incontro nel 1974 con il giovane giornalista free-lance Norio Suzuki che lo convinse a successivamente di lì a poco arrendersi al suo superiore diretto di 30 anni prima, il maggiore Yoshimi Taniguchi(interpretato nel film da Issei Ogata) da antologia del cinema su come diceva Henrì Charrière/Steve McQueen in "Papillon" di Franklyn J. Schaffner, "l'aver commesso il peggiore delitto di cui si possa essere colpevoli. L'aver sperperato la propria vita."
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